Il nero Veltroni
di Fausto Carioti
«I care. We can. They win». Difficile trovare per Walter Veltroni una sintesi migliore di quella che Edmondo Berselli gli ha dedicato nel suo ultimo libro. «I care» è lo slogan che Veltroni scelse nel 2000 per il congresso torinese dei Ds. Ideato oltre mezzo secolo fa dai movimenti “impegnati” americani, era già stato adottato da don Lorenzo Milani, anch’egli, a sua volta, oggetto dei plagi veltroniani. «We can», come sanno anche i sassi, è il grido di battaglia che ha portato Barack Obama a essere eletto presidente degli Stati Uniti: Veltroni s’è fregato pure questo. «They win», infine, è l’esito spietato di tutti questi scimmiottamenti: perché poi, anche nel mondo a tinte pastello di Walter, alla fine sono sempre gli altri che vincono.
Persino questa storia dal finale triste, però, ha il suo lato divertente: come il coyote dei cartoni animati, Veltroni non si arrende mai, ogni puntata ha un nuovo entusiasmo che lo spinge a tirare avanti. Adesso è diventato il primo degli “obamaniacs”. Ha vinto Barack, e quindi, per Walter, è come se avesse vinto lui. Non scherza, fa sul serio: «Obama è uno di noi. Il leader di un grande movimento politico e civile che è il pensiero democratico», ha detto Veltroni a Repubblica. In compenso uno che scherza davvero, come Silvio Berlusconi, il quale ieri ha definito «bello, giovane e abbronzato» il nuovo presidente americano, viene preso drammaticamente sul serio e fatto oggetto dei prevedibilissimi attacchi del Pd per aver alluso al colore della pelle di Barack. Passati i festeggiamenti per Obama e terminate le urla d’indignazione per il politicamente scorretto Berlusconi, qualcuno, con il dovuto tatto, dovrà mettere sulla scrivania di Veltroni l’elenco dei leader del «pensiero democratico» (qualunque cosa esso sia) che hanno fatto a pezzi la sinistra italiana. Dal precedente innamoramento di Walter, John Fitzgerald Kennedy, che all’inizio degli anni Sessanta avviò l’escalation militare americana in Vietnam, sino a Bill Clinton, l’uomo che spedì i bombardieri dell’Alleanza atlantica in Kosovo.
Adesso, per esempio, Veltroni è in brodo di giuggiole perché finalmente gli Stati Uniti hanno un presidente più incline al multilateralismo. Cioè uno che ritiene importanti le Nazioni Unite, gli altri organismi internazionali e i Paesi alleati. Bello, no? In teoria, sì. In pratica, dipende. Perché l’Unione europea, l’Italia e gli altri Paesi avranno un po’ più voce in capitolo. Ma dovranno meritarselo. Obama lo ha già messo nero su bianco. Nella lista delle cose da fare che ha preparato assieme al futuro vicepresidente, Joe Biden, ha scritto: «Le alleanze tradizionali dell’America, come la Nato, devono essere trasformate e rafforzate, anche su materie di sicurezza comune come l’Afghanistan, la sicurezza nazionale e la lotta al terrorismo. Rinnoveremo le alleanze e ci assicureremo che i nostri alleati contribuiscano con una giusta quota alla nostra sicurezza reciproca». Se non fosse chiaro, vuol dire che Obama chiederà a noi e agli altri Paesi di fare di più. Cioè di mandare più soldati e più mezzi e di usarli per operazioni più pericolose. Iniziando da Kabul.
Domanda: Veltroni e il suo partito sono pronti per tutto questo? Ma figuriamoci. L’ultima volta che si è parlato di Afghanistan in Parlamento è stato a fine settembre. Il governo aveva appena annunciato l’invio di quattro aerei militari Tornado, per usarli in compiti di semplice osservazione. Tanto è bastato al Pd per insorgere. Proprio perché conosce i suoi alleati, Obama non esclude di fare di testa sua. «Nessun presidente deve mai esitare a usare la forza - unilateralmente, se necessario - per proteggere l’America e i nostri interessi vitali quando siamo attaccati o oggetto di minacce imminenti», si legge nel suo programma. Parole da tenere a mente quando il successore di George W. Bush prenderà in mano il dossier del nucleare iraniano, che ha già detto di voler affrontare in modo «aggressivo». Insomma, ci sarà da divertirsi. Non a caso il comico Michael Moore, che conosce Obama un po’ meglio di Veltroni, lo ha paragonato a un «falco conservatore».
Ma Veltroni ormai non lo ferma più nessuno. Il suo è un entusiasmo facile come una canzone di Jovanotti e leggero come Piero Fassino. «Berlusconi blocca gli accordi di Kyoto mentre Obama punta sull’ambiente come fattore di crescita», dice Walter. Bravo. Peccato si sia scordato di aggiungere che il suo idolo può permettersi certi lussi perché il 19 per cento dell’energia americana è generato da 104 reattori nucleari, che producono elettricità a buon mercato e senza immettere “gas serra” nell’aria. Tanto che il nuovo presidente non ha alcuna intenzione di spegnerli. Anzi: già parla di «espandere l’energia nucleare» quando avrà trovato un modo più sicuro per tenere le scorie radioattive lontane dai terroristi. Per il resto, più energia eolica e più pannelli solari, certo. Ma soprattutto più carbone pulito: Obama ha in agenda la costruzione di cinque centrali a carbone con nuove tecnologie per catturare l’anidride carbonica. Anche qui, Veltroni è pronto a seguire il suo modello? Macché. L’ultima volta che il Pd si è trovato davanti alla proposta di costruire una centrale a carbone pulito è stato a Reggio Calabria, venti giorni fa. La giunta regionale, guidata dall’esponente del Pd Agazio Loiero, ha detto: «No, we can’t», quella centrale non si può fare. L’America è lontana. E tanti saluti a Obama.
© Libero. Pubblicato il 7 novembre 2008.
«I care. We can. They win». Difficile trovare per Walter Veltroni una sintesi migliore di quella che Edmondo Berselli gli ha dedicato nel suo ultimo libro. «I care» è lo slogan che Veltroni scelse nel 2000 per il congresso torinese dei Ds. Ideato oltre mezzo secolo fa dai movimenti “impegnati” americani, era già stato adottato da don Lorenzo Milani, anch’egli, a sua volta, oggetto dei plagi veltroniani. «We can», come sanno anche i sassi, è il grido di battaglia che ha portato Barack Obama a essere eletto presidente degli Stati Uniti: Veltroni s’è fregato pure questo. «They win», infine, è l’esito spietato di tutti questi scimmiottamenti: perché poi, anche nel mondo a tinte pastello di Walter, alla fine sono sempre gli altri che vincono.
Persino questa storia dal finale triste, però, ha il suo lato divertente: come il coyote dei cartoni animati, Veltroni non si arrende mai, ogni puntata ha un nuovo entusiasmo che lo spinge a tirare avanti. Adesso è diventato il primo degli “obamaniacs”. Ha vinto Barack, e quindi, per Walter, è come se avesse vinto lui. Non scherza, fa sul serio: «Obama è uno di noi. Il leader di un grande movimento politico e civile che è il pensiero democratico», ha detto Veltroni a Repubblica. In compenso uno che scherza davvero, come Silvio Berlusconi, il quale ieri ha definito «bello, giovane e abbronzato» il nuovo presidente americano, viene preso drammaticamente sul serio e fatto oggetto dei prevedibilissimi attacchi del Pd per aver alluso al colore della pelle di Barack. Passati i festeggiamenti per Obama e terminate le urla d’indignazione per il politicamente scorretto Berlusconi, qualcuno, con il dovuto tatto, dovrà mettere sulla scrivania di Veltroni l’elenco dei leader del «pensiero democratico» (qualunque cosa esso sia) che hanno fatto a pezzi la sinistra italiana. Dal precedente innamoramento di Walter, John Fitzgerald Kennedy, che all’inizio degli anni Sessanta avviò l’escalation militare americana in Vietnam, sino a Bill Clinton, l’uomo che spedì i bombardieri dell’Alleanza atlantica in Kosovo.
Adesso, per esempio, Veltroni è in brodo di giuggiole perché finalmente gli Stati Uniti hanno un presidente più incline al multilateralismo. Cioè uno che ritiene importanti le Nazioni Unite, gli altri organismi internazionali e i Paesi alleati. Bello, no? In teoria, sì. In pratica, dipende. Perché l’Unione europea, l’Italia e gli altri Paesi avranno un po’ più voce in capitolo. Ma dovranno meritarselo. Obama lo ha già messo nero su bianco. Nella lista delle cose da fare che ha preparato assieme al futuro vicepresidente, Joe Biden, ha scritto: «Le alleanze tradizionali dell’America, come la Nato, devono essere trasformate e rafforzate, anche su materie di sicurezza comune come l’Afghanistan, la sicurezza nazionale e la lotta al terrorismo. Rinnoveremo le alleanze e ci assicureremo che i nostri alleati contribuiscano con una giusta quota alla nostra sicurezza reciproca». Se non fosse chiaro, vuol dire che Obama chiederà a noi e agli altri Paesi di fare di più. Cioè di mandare più soldati e più mezzi e di usarli per operazioni più pericolose. Iniziando da Kabul.
Domanda: Veltroni e il suo partito sono pronti per tutto questo? Ma figuriamoci. L’ultima volta che si è parlato di Afghanistan in Parlamento è stato a fine settembre. Il governo aveva appena annunciato l’invio di quattro aerei militari Tornado, per usarli in compiti di semplice osservazione. Tanto è bastato al Pd per insorgere. Proprio perché conosce i suoi alleati, Obama non esclude di fare di testa sua. «Nessun presidente deve mai esitare a usare la forza - unilateralmente, se necessario - per proteggere l’America e i nostri interessi vitali quando siamo attaccati o oggetto di minacce imminenti», si legge nel suo programma. Parole da tenere a mente quando il successore di George W. Bush prenderà in mano il dossier del nucleare iraniano, che ha già detto di voler affrontare in modo «aggressivo». Insomma, ci sarà da divertirsi. Non a caso il comico Michael Moore, che conosce Obama un po’ meglio di Veltroni, lo ha paragonato a un «falco conservatore».
Ma Veltroni ormai non lo ferma più nessuno. Il suo è un entusiasmo facile come una canzone di Jovanotti e leggero come Piero Fassino. «Berlusconi blocca gli accordi di Kyoto mentre Obama punta sull’ambiente come fattore di crescita», dice Walter. Bravo. Peccato si sia scordato di aggiungere che il suo idolo può permettersi certi lussi perché il 19 per cento dell’energia americana è generato da 104 reattori nucleari, che producono elettricità a buon mercato e senza immettere “gas serra” nell’aria. Tanto che il nuovo presidente non ha alcuna intenzione di spegnerli. Anzi: già parla di «espandere l’energia nucleare» quando avrà trovato un modo più sicuro per tenere le scorie radioattive lontane dai terroristi. Per il resto, più energia eolica e più pannelli solari, certo. Ma soprattutto più carbone pulito: Obama ha in agenda la costruzione di cinque centrali a carbone con nuove tecnologie per catturare l’anidride carbonica. Anche qui, Veltroni è pronto a seguire il suo modello? Macché. L’ultima volta che il Pd si è trovato davanti alla proposta di costruire una centrale a carbone pulito è stato a Reggio Calabria, venti giorni fa. La giunta regionale, guidata dall’esponente del Pd Agazio Loiero, ha detto: «No, we can’t», quella centrale non si può fare. L’America è lontana. E tanti saluti a Obama.
© Libero. Pubblicato il 7 novembre 2008.