Ma il problema di D'Alema non era la Forleo

di Fausto Carioti

Poi dicono che i grandi accordi non sono più possibili, che la politica è diventata una guerra tra bande e altre cattiverie del genere. Ma quando mai: 543 sì, 90 astenuti e appena 43 voti contrari. Con un consenso che più bipartisan non si può (appena il 6 per cento di voti contrari, manco nella Russia di Vladimir Putin) ieri il Parlamento di Strasburgo ha confermato l’immunità di Massimo D’Alema, finito nel mirino dei magistrati milanesi per il ruolo che avrebbe ricoperto nella fallita scalata della Unipol alla Bnl. Tutti d’accordo, tutti garantisti, tutti felici: festeggia il diretto interessato, brindano i suoi compagni di partito, alzano i calici gli amici italiani del centrodestra e anche i tanti europarlamentari di altri Paesi e di ogni parte politica che lo hanno difeso. Gran parte dei quali manco sa che faccia abbia D’Alema e tantomeno perché la procura di Milano ce l’avesse con lui. Ma sa benissimo che in questi casi votare per l’immunità del collega è come farsi un’assicurazione sul futuro. Perché ieri è toccato a lui, ma domani chissà.

Chi deve rassegnarsi, invece, è il giudice Clementina Forleo, che aveva chiesto al parlamento europeo di usare le registrazioni di due telefonate dell’ex ministro degli Esteri. Roba del luglio 2005, l’estate dei furbetti del quartierino. Nel primo colloquio D’Alema chiedeva notizie sull’operazione a Giovanni Consorte, presidente dell’Unipol, e lo esortava a tirare dritto: «Facci sognare!». Nel secondo raccontava a Consorte di una chiacchierata appena avuta con un esponente dell’Udc che possedeva un pacchetto di azioni Bnl ed era interessato ad un accordo “politico” con D’Alema. Niente di trascendentale, per carità: sia perché il mito della verginità dei post-comunisti era già morto e sepolto da qualche lustro, sia perché l’omino coi baffi sembrava sapere di essere intercettato e invitava il suo interlocutore a tenere a freno la lingua. Fatto sta che la Forleo contava di usare quel materiale per iscrivere D’Alema nel registro degli indagati e che il parlamento di Strasburgo ha appena detto che non si può. Fine, game over.

Chiuso il discorso della giustizia, resta però da fare i conti con la politica. Perché il pericolo vero, per D’Alema e i suoi, non è la Forleo, sulla cui richiesta il giudizio dell’europarlamento era scontato. Ma il leader del suo stesso partito, Walter Veltroni, che sta portando il Pd alla irrilevanza politica. Proprio ieri il caso ha voluto che l’ex sindaco di Roma presentasse la sua riforma della giustizia, ovviamente al servizio dei cittadini «e non di uno solo». Una riforma, va da sé, che non è «come quella che vorrebbe fare il governo». Del resto il migliore alleato di Veltroni rimane, malgrado tutto, Antonio Di Pietro. Ecco, appunto: che c’azzecca tutto questo con il fatto che poche ore prima, nel parlamento europeo, gli uomini del Pd hanno votato insieme a quelli di Silvio Berlusconi per confermare l’immunità di D’Alema dinanzi alle richieste dei magistrati? Che morale dovrebbero trarre, da questo episodio, i già disorientati elettori del centrosinistra? I quali alla loro superiorità etica ed antropologica, poveretti, credono sul serio. Non molto tempo fa Luca Ricolfi, nel suo libro “Perché siamo antipatici?”, pubblicò i risultati di un sondaggio dell’Osservatorio del Nord Ovest. Diceva che il 56 per cento degli «elettori di sinistra politicamente impegnati» si sente «moralmente superiore» rispetto al resto del mondo (nel centrodestra questa percentuale non arriva al 14 per cento). Vaglielo a spiegare.

Fosse solo la giustizia. Veltroni è quello che dice peste e corna della legge elettorale con le liste bloccate voluta dal centrodestra. Ma non si fa problemi a usarla per portare in parlamento ragazzotti che, se non ci fosse stata quella legge, Montecitorio l’avrebbero vista in televisione. È quello che annuncia la nascita di un partito nuovo per un modo nuovo di fare politica. Poi va a piangere al Quirinale perché è stato eletto presidente della Commissione di vigilanza Rai un uomo del suo partito, ma non imposto da lui, eppure votato anche da alcuni esponenti del Pd (poveri elettori, chissà cosa ci hanno capito). È sempre lui che prima lavora per un partito maggioritario e autosufficiente e poi finisce per dire sì a tutte le richieste dell’Italia dei Valori, per paura di ritrovarsi davvero solo (primo caso, nella politica italiana, di un cespuglio che detta la linea a un partito del trenta per cento). Veltroni è anche quello che va in televisione, alla trasmissione di Fabio Fazio, per dire che l’accordo con Di Pietro «è finito» e qualche giorno dopo, come se niente fosse, annuncia che appoggerà il candidato dell’Italia dei valori alla presidenza dell’Abruzzo. Basta, fermate il mondo, gli elettori del Pd vogliono scendere.

Risolta in scioltezza la grana giudiziaria, D’Alema avrebbe ora tutto il tempo e la libertà di occuparsi dei danni che Veltroni sta infliggendo al Pd. Ma bisognerà attendere le elezioni europee per vedere succedere qualcosa da quelle parti. È vero, come dicono speranzosi gli uomini di Veltroni, che da qui a giugno può succedere di tutto, anche uno scivolone del centrodestra. Ma è vero pure che, da qui ad allora, il Pd rischia di diventare un insieme di cocci impossibile da ricomporre. D’Alema, o chi per lui, avrà comunque il suo bel daffare. Auguri.

© Libero. Pubblicato il 19 novembre 2008.

Post popolari in questo blog

L'articolo del compagno Giorgio Napolitano contro Aleksandr Solzhenitsyn

Anche De Benedetti scarica Veltroni

Quando Napolitano applaudiva all'esilio di Solzhenitsyn