La farsa del governo dei migliori
di Fausto Carioti
Siccome fantasticare a voce alta non costa nulla, in questi giorni politici e osservatori si sbizzarriscono a ipotizzare scenari surreali di due tipi, riconducibili sotto l’etichetta di “governo dei migliori”. Il primo tipo è la variante preferita dai cosiddetti “poteri forti” e da quella parte della sinistra che, pur di evitare il voto in primavera, sarebbe pronta a mandare persino Gianni Letta a palazzo Chigi. Un gruppo di “illuminati” (di norma personaggi che non vincerebbero un’elezione manco in un’assemblea condominiale, ma fa niente) prende nelle mani le redini del Paese, vara quella mezza dozzina di riforme ovvie e sagge (niente di complicato, basta trovare uno che sappia l’inglese: le hanno già scritte per noi l’Economist e il Financial Times), risolve il problema dei rifiuti in Campania, trasforma l’Italia nel paese occidentale con la più alta crescita economica e quindi, tra un annetto, riconsegna il Paese - ripulito, splendente ed efficiente - alla classe politica. Secondo scenario: Berlusconi stravince le elezioni e, invece di mettere Gaetano Pecorella ministro della Giustizia, chiama accanto a sé, nel suo esecutivo, la “crème de la crème” dei “meritevoli”, che ovviamente abbonda di nomi di sinistra: il sindaco nietzschiano Massimo Cacciari, il decisionista friulano Riccardo Illy, il riformista mogio Umberto Ranieri e il solito Giuliano Amato, che essendo passato indenne dal sodalizio con Bettino Craxi a quello con Antonio Di Pietro è ritenuto in grado di sopravvivere a qualunque stravolgimento politico mantenendo intatta la sua poltrona da ministro.
Ora, anche ammesso che tali personaggi abbiano davvero le capacità che vengono loro attribuite e siano intenzionati a fare i ministri di simili governi, resta da risolvere un problema di cui nessuno parla, forse perché noiosamente tecnico: certe cose si possono fare solo trasformando l’Italia in una repubblica presidenziale o semipresidenziale, sul modello degli Stati Uniti o della Francia. Solo un capo del governo scelto direttamente dai cittadini o un presidente della repubblica eletto mediante suffragio possono permettersi il lusso di mettere alla guida di ministeri di primo livello personaggi che non rispondono ai partiti né al parlamento, ma direttamente a chi li ha scelti.
L’esempio con cui tutti si riempiono la bocca è quello di Nicolas Sarkozy. Il presidente della repubblica francese ha fatto primo ministro François Fillon, uno che Sarkozy, con poco tatto ma molta sincerità, ha definito come un suo semplice «consigliere». I ministri non li ha scelti Fillon, ma il suo “dante causa”. E Sarkozy, fregandosene dei travasi di bile all’interno del suo stesso partito, l’Ump, ha messo il socialista Bernard Kouchner a fare il ministro degli Esteri. Ad altri suoi ex rivali, tipo l’economista Jacques Attali (che fu consigliere di François Mitterand all’Eliseo), ha assegnato poltrone di prestigio. Ma Sarkozy, appunto, può fare tutto questo perché il parlamento (e, tramite esso, i partiti), non possono sfiduciarlo, e perché lui stesso ha il potere di nominare e revocare i ministri, iniziando dal premier. Volendo semplificare, l’impalcatura costituzionale francese è figlia del presidenzialismo e del decisionismo di Charles De Gaulle, mentre la repubblica italiana è il trionfo del parlamentarismo, prodotto dalla crisi di rigetto al modello dell’uomo forte, incarnato durante il Ventennio da Benito Mussolini. Due filosofie opposte, tra le quali ogni paragone è improponibile.
Eppure non c’è giorno in cui non salti fuori qualcuno che, per fare uscire l’Italia dal pantano, proponga o prometta di adottare da questa parte delle Alpi il “modello Sarkozy”, o di approdare comunque a una qualche forma di governo dei migliori o dei “più meritevoli” (definizione cara agli ambienti confindustriali). Sono gli stessi che, bene che vada, caldeggiano la riforma in senso francese della legge elettorale italiana: operazione, come si è visto nei giorni scorsi, già di per sé impossibile, almeno nel quadro politico attuale. Nessuno che abbia la coerenza di dire che, per arrivare a risultati paragonabili a quelli parigini, occorre fare molto di più: bisogna archiviare la paura dell’uomo forte e stracciare buona parte della costituzione italiana. Per inciso: non sarebbe nemmeno una cattiva idea. Se ne potrebbe parlare in un prossimo futuro, se solo qualcuno avesse il coraggio di proporla.
© Libero. Pubblicato il 29 gennaio 2008.
Siccome fantasticare a voce alta non costa nulla, in questi giorni politici e osservatori si sbizzarriscono a ipotizzare scenari surreali di due tipi, riconducibili sotto l’etichetta di “governo dei migliori”. Il primo tipo è la variante preferita dai cosiddetti “poteri forti” e da quella parte della sinistra che, pur di evitare il voto in primavera, sarebbe pronta a mandare persino Gianni Letta a palazzo Chigi. Un gruppo di “illuminati” (di norma personaggi che non vincerebbero un’elezione manco in un’assemblea condominiale, ma fa niente) prende nelle mani le redini del Paese, vara quella mezza dozzina di riforme ovvie e sagge (niente di complicato, basta trovare uno che sappia l’inglese: le hanno già scritte per noi l’Economist e il Financial Times), risolve il problema dei rifiuti in Campania, trasforma l’Italia nel paese occidentale con la più alta crescita economica e quindi, tra un annetto, riconsegna il Paese - ripulito, splendente ed efficiente - alla classe politica. Secondo scenario: Berlusconi stravince le elezioni e, invece di mettere Gaetano Pecorella ministro della Giustizia, chiama accanto a sé, nel suo esecutivo, la “crème de la crème” dei “meritevoli”, che ovviamente abbonda di nomi di sinistra: il sindaco nietzschiano Massimo Cacciari, il decisionista friulano Riccardo Illy, il riformista mogio Umberto Ranieri e il solito Giuliano Amato, che essendo passato indenne dal sodalizio con Bettino Craxi a quello con Antonio Di Pietro è ritenuto in grado di sopravvivere a qualunque stravolgimento politico mantenendo intatta la sua poltrona da ministro.
Ora, anche ammesso che tali personaggi abbiano davvero le capacità che vengono loro attribuite e siano intenzionati a fare i ministri di simili governi, resta da risolvere un problema di cui nessuno parla, forse perché noiosamente tecnico: certe cose si possono fare solo trasformando l’Italia in una repubblica presidenziale o semipresidenziale, sul modello degli Stati Uniti o della Francia. Solo un capo del governo scelto direttamente dai cittadini o un presidente della repubblica eletto mediante suffragio possono permettersi il lusso di mettere alla guida di ministeri di primo livello personaggi che non rispondono ai partiti né al parlamento, ma direttamente a chi li ha scelti.
L’esempio con cui tutti si riempiono la bocca è quello di Nicolas Sarkozy. Il presidente della repubblica francese ha fatto primo ministro François Fillon, uno che Sarkozy, con poco tatto ma molta sincerità, ha definito come un suo semplice «consigliere». I ministri non li ha scelti Fillon, ma il suo “dante causa”. E Sarkozy, fregandosene dei travasi di bile all’interno del suo stesso partito, l’Ump, ha messo il socialista Bernard Kouchner a fare il ministro degli Esteri. Ad altri suoi ex rivali, tipo l’economista Jacques Attali (che fu consigliere di François Mitterand all’Eliseo), ha assegnato poltrone di prestigio. Ma Sarkozy, appunto, può fare tutto questo perché il parlamento (e, tramite esso, i partiti), non possono sfiduciarlo, e perché lui stesso ha il potere di nominare e revocare i ministri, iniziando dal premier. Volendo semplificare, l’impalcatura costituzionale francese è figlia del presidenzialismo e del decisionismo di Charles De Gaulle, mentre la repubblica italiana è il trionfo del parlamentarismo, prodotto dalla crisi di rigetto al modello dell’uomo forte, incarnato durante il Ventennio da Benito Mussolini. Due filosofie opposte, tra le quali ogni paragone è improponibile.
Eppure non c’è giorno in cui non salti fuori qualcuno che, per fare uscire l’Italia dal pantano, proponga o prometta di adottare da questa parte delle Alpi il “modello Sarkozy”, o di approdare comunque a una qualche forma di governo dei migliori o dei “più meritevoli” (definizione cara agli ambienti confindustriali). Sono gli stessi che, bene che vada, caldeggiano la riforma in senso francese della legge elettorale italiana: operazione, come si è visto nei giorni scorsi, già di per sé impossibile, almeno nel quadro politico attuale. Nessuno che abbia la coerenza di dire che, per arrivare a risultati paragonabili a quelli parigini, occorre fare molto di più: bisogna archiviare la paura dell’uomo forte e stracciare buona parte della costituzione italiana. Per inciso: non sarebbe nemmeno una cattiva idea. Se ne potrebbe parlare in un prossimo futuro, se solo qualcuno avesse il coraggio di proporla.
© Libero. Pubblicato il 29 gennaio 2008.