Kamasutra a sinistra
di Fausto Carioti
Il kamasutra politico che la sinistra sta esibendo in piazza in questi giorni si spiega solo con la disperazione più nera. Prendiamo la Cei, la Conferenza dei vescovi italiani. Ogni volta che qualcuno dei suoi esponenti parla contro l’aborto, cioè parla di vita, argomento - comunque la si pensi - dalle profondissime implicazioni etiche, a sinistra iniziano a perdere bava dalla bocca. I prelati sono accusati di ingerenza nella politica italiana. Vengono trattati alla stregua di rappresentanti di uno stato estero: tutt’al più possono guardare, purché lo facciano in silenzio. Poi, però, succede che la stessa Cei, tramite il suo segretario generale, monsignor Giuseppe Betori, “esorti” tutti i soggetti della politica a non portare il Paese alle urne e a dar vita a un governone frutto di «un accordo tra le parti». Che poi è quello in cui spera la sinistra. Ora, qui non sono in ballo né l’etica religiosa né il diritto alla vita. Si tratta di decidere quando andare al voto e con quale legge elettorale, e nessuna delle soluzioni possibili viola i dieci comandamenti. Insomma, se c’è stata un’occasione in cui i vescovi hanno messo bocca nelle vicende della politica italiana più distanti dal magistero della Chiesa, è stata questa. Però stavolta nessuno li accusa di indebita ingerenza negli affaracci nostri.
Al contrario: la richiesta di Betori (avesse parlato di aborto o coppie omosessuali il suo sarebbe stato ovviamente un “diktat”) è rilanciata da leader e peones della sinistra ed è fatta propria, in prima pagina, dall’Unità. La situazione è grave, il momento è solenne, e davanti al rischio di vedere gli italiani in fila per votare (esercizio notoriamente pernicioso per la democrazia) i compagni chiamano a far parte del pueblo unido i vescovi di Santa Romana Chiesa: hasta la victoria.
Il fondo lo hanno toccato con le associazioni d’impresa. Se la Confindustria di Luca Cordero di Montezemolo e la Confcommercio premono per non andare al voto, qualcosina vorrà dire. Ad esempio che in certi ambienti fa molto più comodo avere come interlocutore un governicchio logorato e screditato che un esecutivo appena uscito vincente da una tornata elettorale. Col primo, infatti, possono permettersi lussi che il secondo non consentirebbe. Certo, a sinistra tutto questo lo sanno. Ma se ne fregano. Così sbandierano alto l’appello firmato da Confindustria, Confcommercio, Confartigianato e Confqualsiasicosa per non andare al voto: come d’incanto padroni che fino al giorno prima davano paghe da fame agli operai facendoli lavorare in fabbriche-obitorio e odiati bottegai strangolatori del popolo si trasformano nelle avanguardie della parte sana della società civile. «C’è una larga fetta di Paese, quella produttiva, quella che lavora, che non vuole elezioni», annuncia l’Unità con toni da epica partigiana.
I confini della nuova Stalingrado difesa dal commissario del popolo Giorgio Napolitano sono chiari: ingoieranno qualsiasi cosa, ma non le elezioni. Lo spessore morale e politico di certe argomentazioni è riassunto benissimo in un articolo di Paolo Flores D’Arcais, apparso sempre sull’Unità. Con il quale il quotidiano fondato da Antonio Gramsci propone di far fare il nuovo governo a Luca Cordero di Montezemolo. «A me non piacerebbe affatto», assicura D’Arcais. «Ma a Berlusconi piacerebbe ancora meno. Con quasi quattro mesi di esposizione mediatica massiccia, e con il discredito di cui gode l’intero ceto politico, il governo di un centro confindustrial-sindacal-ecclesiale (Pezzotta e il suo family day, nuove leve alla Marcegaglia e tecnocratici del calibro di Mario Monti), che al momento di presentare le liste diventasse Partito, toglierebbe al Cavaliere la maggioranza dei suoi elettori. E per Berlusconi, politicamente, sarebbe la fine». Capito il livello? Chi se ne frega del povero Romano Prodi e del suo progetto, ormai già rottamato. Chi se ne sbatte della democrazia, dei partiti, degli operai, degli atei, delle abortiste e di tutti quei pirla che hanno votato per la sinistra. Andassero tutti a quel paese, usiamo il loro voto per mettere al governo i loro avversari, che mai si sono presentati in una qualsiasi elezione. Tutto è possibile, anche l’indecente: basta che non si torni a votare. Se non fosse per il compagno Montezemolo, che non ha alcuna intenzione di prendere i pomodori in faccia per fare un piacere a D’Arcais e ai suoi consimili, l’accordo sarebbe già chiuso.
L’ex direttore del Manifesto Riccardo Barenghi ci scherza su e, sulla Stampa, scrive che Napolitano, pur di evitare le elezioni anticipate, presto si giocherà il suo vero asso nella manica: l’incarico a Silvio Berlusconi. Molto divertente, ma tutt’altro che surreale. L’uomo più vicino a Prodi, il suo consigliere economico Angelo Rovati (quello del pasticciaccio Telecom), nei giorni scorsi ha candidato Gianni Letta, cioè l’alter ego del Caimano, alla guida di un governo per le riforme: se non è una barzelletta questa. Mentre Rosy Bindi, che pure a sinistra qualcuno spaccia per una delle grandi risorse latenti della gauche italienne (e anche questo dà da pensare), dopo aver detto (Corriere della Sera del 28 gennaio, mica un mese fa) che loro non potranno «mai più allearsi» con «Mastella, Dini, Fisichella e Turigliatto», ora è lì che difende il governo Marini. Che, se mai si farà, si reggerà proprio sulle fragili spalle di quei senatori su cui lei ha riversato tutto il suo disprezzo. E poi se la prendono con Berlusconi e la Cdl perché non vogliono fare un governo assieme a loro. Ma come si fa a dare credibilità a gente simile? Dinanzi a questi, persino gli esponenti del centrodestra sembrano titani della politica, campioni di coerenza. Al voto, al voto.
© Libero. Pubblicato il 31 gennaio 2008.
Il kamasutra politico che la sinistra sta esibendo in piazza in questi giorni si spiega solo con la disperazione più nera. Prendiamo la Cei, la Conferenza dei vescovi italiani. Ogni volta che qualcuno dei suoi esponenti parla contro l’aborto, cioè parla di vita, argomento - comunque la si pensi - dalle profondissime implicazioni etiche, a sinistra iniziano a perdere bava dalla bocca. I prelati sono accusati di ingerenza nella politica italiana. Vengono trattati alla stregua di rappresentanti di uno stato estero: tutt’al più possono guardare, purché lo facciano in silenzio. Poi, però, succede che la stessa Cei, tramite il suo segretario generale, monsignor Giuseppe Betori, “esorti” tutti i soggetti della politica a non portare il Paese alle urne e a dar vita a un governone frutto di «un accordo tra le parti». Che poi è quello in cui spera la sinistra. Ora, qui non sono in ballo né l’etica religiosa né il diritto alla vita. Si tratta di decidere quando andare al voto e con quale legge elettorale, e nessuna delle soluzioni possibili viola i dieci comandamenti. Insomma, se c’è stata un’occasione in cui i vescovi hanno messo bocca nelle vicende della politica italiana più distanti dal magistero della Chiesa, è stata questa. Però stavolta nessuno li accusa di indebita ingerenza negli affaracci nostri.
Al contrario: la richiesta di Betori (avesse parlato di aborto o coppie omosessuali il suo sarebbe stato ovviamente un “diktat”) è rilanciata da leader e peones della sinistra ed è fatta propria, in prima pagina, dall’Unità. La situazione è grave, il momento è solenne, e davanti al rischio di vedere gli italiani in fila per votare (esercizio notoriamente pernicioso per la democrazia) i compagni chiamano a far parte del pueblo unido i vescovi di Santa Romana Chiesa: hasta la victoria.
Il fondo lo hanno toccato con le associazioni d’impresa. Se la Confindustria di Luca Cordero di Montezemolo e la Confcommercio premono per non andare al voto, qualcosina vorrà dire. Ad esempio che in certi ambienti fa molto più comodo avere come interlocutore un governicchio logorato e screditato che un esecutivo appena uscito vincente da una tornata elettorale. Col primo, infatti, possono permettersi lussi che il secondo non consentirebbe. Certo, a sinistra tutto questo lo sanno. Ma se ne fregano. Così sbandierano alto l’appello firmato da Confindustria, Confcommercio, Confartigianato e Confqualsiasicosa per non andare al voto: come d’incanto padroni che fino al giorno prima davano paghe da fame agli operai facendoli lavorare in fabbriche-obitorio e odiati bottegai strangolatori del popolo si trasformano nelle avanguardie della parte sana della società civile. «C’è una larga fetta di Paese, quella produttiva, quella che lavora, che non vuole elezioni», annuncia l’Unità con toni da epica partigiana.
I confini della nuova Stalingrado difesa dal commissario del popolo Giorgio Napolitano sono chiari: ingoieranno qualsiasi cosa, ma non le elezioni. Lo spessore morale e politico di certe argomentazioni è riassunto benissimo in un articolo di Paolo Flores D’Arcais, apparso sempre sull’Unità. Con il quale il quotidiano fondato da Antonio Gramsci propone di far fare il nuovo governo a Luca Cordero di Montezemolo. «A me non piacerebbe affatto», assicura D’Arcais. «Ma a Berlusconi piacerebbe ancora meno. Con quasi quattro mesi di esposizione mediatica massiccia, e con il discredito di cui gode l’intero ceto politico, il governo di un centro confindustrial-sindacal-ecclesiale (Pezzotta e il suo family day, nuove leve alla Marcegaglia e tecnocratici del calibro di Mario Monti), che al momento di presentare le liste diventasse Partito, toglierebbe al Cavaliere la maggioranza dei suoi elettori. E per Berlusconi, politicamente, sarebbe la fine». Capito il livello? Chi se ne frega del povero Romano Prodi e del suo progetto, ormai già rottamato. Chi se ne sbatte della democrazia, dei partiti, degli operai, degli atei, delle abortiste e di tutti quei pirla che hanno votato per la sinistra. Andassero tutti a quel paese, usiamo il loro voto per mettere al governo i loro avversari, che mai si sono presentati in una qualsiasi elezione. Tutto è possibile, anche l’indecente: basta che non si torni a votare. Se non fosse per il compagno Montezemolo, che non ha alcuna intenzione di prendere i pomodori in faccia per fare un piacere a D’Arcais e ai suoi consimili, l’accordo sarebbe già chiuso.
L’ex direttore del Manifesto Riccardo Barenghi ci scherza su e, sulla Stampa, scrive che Napolitano, pur di evitare le elezioni anticipate, presto si giocherà il suo vero asso nella manica: l’incarico a Silvio Berlusconi. Molto divertente, ma tutt’altro che surreale. L’uomo più vicino a Prodi, il suo consigliere economico Angelo Rovati (quello del pasticciaccio Telecom), nei giorni scorsi ha candidato Gianni Letta, cioè l’alter ego del Caimano, alla guida di un governo per le riforme: se non è una barzelletta questa. Mentre Rosy Bindi, che pure a sinistra qualcuno spaccia per una delle grandi risorse latenti della gauche italienne (e anche questo dà da pensare), dopo aver detto (Corriere della Sera del 28 gennaio, mica un mese fa) che loro non potranno «mai più allearsi» con «Mastella, Dini, Fisichella e Turigliatto», ora è lì che difende il governo Marini. Che, se mai si farà, si reggerà proprio sulle fragili spalle di quei senatori su cui lei ha riversato tutto il suo disprezzo. E poi se la prendono con Berlusconi e la Cdl perché non vogliono fare un governo assieme a loro. Ma come si fa a dare credibilità a gente simile? Dinanzi a questi, persino gli esponenti del centrodestra sembrano titani della politica, campioni di coerenza. Al voto, al voto.
© Libero. Pubblicato il 31 gennaio 2008.