E Bossi passa al comando
di Fausto Carioti
Di questi tempi il centrodestra ricorda molto quei consigli d’amministrazione nei quali Enrico Cuccia dettava legge pur controllando una quota minima del capitale. «Le azioni si pesano, non si contano», spiegava il dominus di Mediobanca. Sostituendo la grisaglia con la camicia verde, è quello che sta facendo Umberto Bossi dentro la maggioranza: il suo pacchetto di voti sarà pure minoritario, ma oggi pesa tanto da renderlo il vero socio forte. Ruolo in cui Bossi resterà fin quando Silvio Berlusconi non troverà modo di sfilarsi dal pantano in cui le vicende giudiziarie hanno infilato il suo governo e il suo partito.
Le analogie con via Filodrammatici finiscono qui: non essendo cresciuto alla scuola dell’understatement, Bossi esibisce volentieri in pubblico la forza politica di cui dispone. Ieri, per dire, l’iniziativa l’hanno presa in mano lui e i suoi. E sui poveri alleati del PdL ha iniziato a piovere sin dal mattino. Prima, dalle colonne di Repubblica, il sindaco di Verona, Flavio Tosi, ha usato parole dure nei confronti dei vicini di coalizione: «Il presidente del Consiglio dovrebbe avere la determinazione e il coraggio di fare una seria operazione di controllo dei ranghi interni. Soprattutto in alcune aree del Paese, dove queste collusioni sono più presenti». In altri tempi dal PdL sarebbe stata spedita a Tosi una risposta in romanesco verace, traducibile in un accorato invito a occuparsi degli affari del proprio partito. Ma gli alleati sono così sotto schiaffo che gli hanno quasi dato ragione. Anche Luca Zaia, presidente del Veneto, ci ha messo del suo, dicendo di aspettarsi «pulizia totale» da parte di Berlusconi se le indiscrezioni apparse in questi giorni dovessero trovare conferma. Il risultato è che il premier, annunciando «nessuna indulgenza per chi ha sbagliato», dà l’impressione di essere costretto a subire le loro richieste.
E siccome sono tipi svegli e la politica la sanno fare pure se non hanno letto Ralf Dahrendorf e Zygmunt Bauman (anzi, forse proprio per questo), a quelli della Lega è venuta pure l’idea che sarebbe tanto servita al presidente del Consiglio per dare il primo colpo d’ala e staccarsi dal fango: «Tagliare almeno del cinque per cento gli stipendi di ministri e parlamentari». L’ha tirata fuori Roberto Calderoli, ministro per la Semplificazione legislativa. Il leghista ha detto che la proporrà al governo nel momento di scrivere la manovra correttiva, che potrebbe avere un importo superiore ai 25 miliardi previsti e già promette lacrime e sangue. Se Berlusconi è furbo la fa subito sua, spiegando che spetta alla “casta”, soprattutto in un momento come questo, dare il buon esempio e tirare per prima la cinghia (si fa per dire). Ma la fretta e il momento in cui Calderoli se l’è giocata, assieme a mille altri fattori (ad esempio il giudizio favorevole sull’operato della magistratura), fanno capire che la Lega, in questa fase, è interessata più a competere con il PdL, a fregarlo sul tempo e a contendergli elettori, che a collaborare. Segno che l’ipotesi del voto anticipato è presa in seria considerazione dagli uomini di Bossi.
Il Carroccio, del resto, vince comunque. Vince se il governo resiste, perché se l’esecutivo va avanti vuol dire che riesce a mantenere gli impegni presi sul federalismo. Vince se si fa un nuovo governo, perché tutti, anche nell’opposizione, sanno che per crearne uno diverso da questo occorre il lasciapassare della Lega, che ovviamente lo rilascerà alle proprie condizioni. Ne ha dovuto prendere atto persino il leader dell’Udc, Pier Ferdinando Casini, che ha legato la realizzazione dell’ipotetico «governo di responsabilità nazionale» da lui caldeggiato alla costruzione del federalismo. La Lega vince pure se si va alle urne, perché è l’unico partito in grado di raccogliere i delusi del PdL e del Pd. Non a caso tutti i sondaggi la premiano, e lo faranno ancora di più se la “questione morale” diventerà dirompente. Così, alla prossima legislatura, che probabilmente avremo già tra un anno, si ritroverà in Parlamento più forte e numerosa di prima, nonché decisiva nella partita per la nomina del presidente della Repubblica.
© Libero. Pubblicato il 15 maggio 2010.
Di questi tempi il centrodestra ricorda molto quei consigli d’amministrazione nei quali Enrico Cuccia dettava legge pur controllando una quota minima del capitale. «Le azioni si pesano, non si contano», spiegava il dominus di Mediobanca. Sostituendo la grisaglia con la camicia verde, è quello che sta facendo Umberto Bossi dentro la maggioranza: il suo pacchetto di voti sarà pure minoritario, ma oggi pesa tanto da renderlo il vero socio forte. Ruolo in cui Bossi resterà fin quando Silvio Berlusconi non troverà modo di sfilarsi dal pantano in cui le vicende giudiziarie hanno infilato il suo governo e il suo partito.
Le analogie con via Filodrammatici finiscono qui: non essendo cresciuto alla scuola dell’understatement, Bossi esibisce volentieri in pubblico la forza politica di cui dispone. Ieri, per dire, l’iniziativa l’hanno presa in mano lui e i suoi. E sui poveri alleati del PdL ha iniziato a piovere sin dal mattino. Prima, dalle colonne di Repubblica, il sindaco di Verona, Flavio Tosi, ha usato parole dure nei confronti dei vicini di coalizione: «Il presidente del Consiglio dovrebbe avere la determinazione e il coraggio di fare una seria operazione di controllo dei ranghi interni. Soprattutto in alcune aree del Paese, dove queste collusioni sono più presenti». In altri tempi dal PdL sarebbe stata spedita a Tosi una risposta in romanesco verace, traducibile in un accorato invito a occuparsi degli affari del proprio partito. Ma gli alleati sono così sotto schiaffo che gli hanno quasi dato ragione. Anche Luca Zaia, presidente del Veneto, ci ha messo del suo, dicendo di aspettarsi «pulizia totale» da parte di Berlusconi se le indiscrezioni apparse in questi giorni dovessero trovare conferma. Il risultato è che il premier, annunciando «nessuna indulgenza per chi ha sbagliato», dà l’impressione di essere costretto a subire le loro richieste.
E siccome sono tipi svegli e la politica la sanno fare pure se non hanno letto Ralf Dahrendorf e Zygmunt Bauman (anzi, forse proprio per questo), a quelli della Lega è venuta pure l’idea che sarebbe tanto servita al presidente del Consiglio per dare il primo colpo d’ala e staccarsi dal fango: «Tagliare almeno del cinque per cento gli stipendi di ministri e parlamentari». L’ha tirata fuori Roberto Calderoli, ministro per la Semplificazione legislativa. Il leghista ha detto che la proporrà al governo nel momento di scrivere la manovra correttiva, che potrebbe avere un importo superiore ai 25 miliardi previsti e già promette lacrime e sangue. Se Berlusconi è furbo la fa subito sua, spiegando che spetta alla “casta”, soprattutto in un momento come questo, dare il buon esempio e tirare per prima la cinghia (si fa per dire). Ma la fretta e il momento in cui Calderoli se l’è giocata, assieme a mille altri fattori (ad esempio il giudizio favorevole sull’operato della magistratura), fanno capire che la Lega, in questa fase, è interessata più a competere con il PdL, a fregarlo sul tempo e a contendergli elettori, che a collaborare. Segno che l’ipotesi del voto anticipato è presa in seria considerazione dagli uomini di Bossi.
Il Carroccio, del resto, vince comunque. Vince se il governo resiste, perché se l’esecutivo va avanti vuol dire che riesce a mantenere gli impegni presi sul federalismo. Vince se si fa un nuovo governo, perché tutti, anche nell’opposizione, sanno che per crearne uno diverso da questo occorre il lasciapassare della Lega, che ovviamente lo rilascerà alle proprie condizioni. Ne ha dovuto prendere atto persino il leader dell’Udc, Pier Ferdinando Casini, che ha legato la realizzazione dell’ipotetico «governo di responsabilità nazionale» da lui caldeggiato alla costruzione del federalismo. La Lega vince pure se si va alle urne, perché è l’unico partito in grado di raccogliere i delusi del PdL e del Pd. Non a caso tutti i sondaggi la premiano, e lo faranno ancora di più se la “questione morale” diventerà dirompente. Così, alla prossima legislatura, che probabilmente avremo già tra un anno, si ritroverà in Parlamento più forte e numerosa di prima, nonché decisiva nella partita per la nomina del presidente della Repubblica.
© Libero. Pubblicato il 15 maggio 2010.