Asse Obama-Napolitano sulle intercettazioni
di Fausto Carioti
La lotta alla mafia è senza dubbio importante, ma per gli Stati Uniti quella al terrorismo lo è ancora di più. Ed è innanzitutto a questa che pensava ieri Lanny A. Breuer, sottosegretario del Dipartimento penale americano, quando, parlando in una conferenza stampa all’ambasciata di via Veneto, ha detto: «Non vorremmo mai che succedesse qualcosa che impedisse ai magistrati italiani di fare l’ottimo lavoro svolto finora. Le intercettazioni sono uno strumento essenziale per le indagini». Uno stop che più chiaro non si può alla legge messa in cantiere dal governo Berlusconi, al quale poco o nulla toglie la precisazione di rito fatta in serata dallo stesso Breuer: «Non spetta a me entrare nel merito di decisioni politiche o giudiziarie riguardanti l’Italia».
Proprio le divergenze di opinioni su questa norma tra l’esecutivo di Washington e quello di Roma stanno rafforzando i rapporti che legano Barack Obama a Giorgio Napolitano. Del resto, non da oggi, la Casa Bianca ritiene il presidente della Repubblica un interlocutore più in sintonia con i desideri americani di quanto non lo sia il Cavaliere. Motivo che ha spinto Obama a chiedere un incontro, organizzato in tempi da record: il 17 maggio, subito dopo aver accettato l’invito del presidente americano, Napolitano ha annunciato che si recherà a Washington il 25 maggio, per una visita-lampo. A rendere la prassi ancora più insolita c’è il fatto che il presidente americano sia piuttosto parco nel concedere visite ai leader europei, ma Napolitano, evidentemente, rappresenta l’eccezione. In rappresentanza dell’esecutivo, ad ogni buon conto, sarà con lui il ministro degli Esteri, Franco Frattini.
Dunque, anche se agli occhi del governo Berlusconi e di tanti italiani quello compiuto ieri da Breuer è un intervento a gamba tesa negli affari interni di un Paese alleato, per gli americani ancora una volta tutto, o quasi, si spiega con la lotta al terrorismo, che a Washington ritengono sia affare di loro competenza più o meno esclusiva. Appelli come quello lanciato nei giorni scorsi dal procuratore aggiunto di Milano Armando Spataro, secondo il quale «se passasse la legge sulle intercettazioni sarebbero a rischio anche le indagini sul terrorismo internazionale», poiché spesso queste iniziano da «reati secondari, come l’immigrazione clandestina e la falsificazione di documenti», non sono passati inosservati. Specie a quei settori dell’intelligence americana che hanno bisogno che nel Paese al centro del Mediterraneo i controlli telefonici continuino ad essere fatti ad ampio raggio e con grande discrezionalità. E l’amministrazione Obama, al pari di quella che l’ha preceduta, fa presto a tradurre questi allarmi in una questione politica di primo livello.
Il fatto che ieri Breuer abbia preferito parlare di lotta alla mafia, anziché di lotta al terrorismo, può spiegarsi anche con la volontà di evitare ricordi imbarazzanti: l’ultima volta che gli Stati Uniti si sono occupati di contrasto al terrorismo in Italia fu quando agenti della Cia rapirono l’imam egiziano Abu Omar, e sappiamo come andò a finire.
La richiesta di cambiare la legge sulle intercettazioni, prima di diventare pubblica, era stata avanzata dall’amministrazione americana in modo riservato. Ad esempio durante il pranzo che la scorsa settimana l’ambasciatore a Roma, David H. Thorne, ha avuto con il ministro dell’Interno, Roberto Maroni. O nei tanti colloqui che i rappresentanti diplomatici di Washington hanno avuto con esponenti dell’esecutivo e del PdL, incluso lo stesso sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Gianni Letta. Però manca, agli occhi del Dipartimento di Stato e della stessa Casa Bianca, un interlocutore affidabile, capace di garantire che certe operazioni vadano a buon fine, o quantomeno in grado di dare una risposta chiara e definitiva. Lo stesso Gianfranco Fini, che i suoi amano dipingere come il nuovo oggetto delle brame di Washington, sempre in cerca di leader “emergenti” su cui puntare, in realtà oltre oceano non è visto come un cavallo vincente.
Napolitano, invece, unisce alla sua autorità un feeling eccellente con Obama. Sulla legge per regolare le intercettazioni c’è piena identità di vedute: più volte il presidente della Repubblica italiano è intervenuto nel dibattito per chiedere «regole condivise» e «senso della misura». Appello rivolto a tutte le parti, ma in primis a governo e maggioranza. E a livello personale i suoi rapporti con Obama sono idilliaci. Non da oggi: lo scorso luglio il Times di Londra, nelle cronache del G8 abruzzese, riportava che «Barack Obama si è lanciato in un copioso elogio per un grande leader nazionale, che ha l’ammirazione di tutto il popolo italiano. Obama non parlava di Silvio Berlusconi, ma del Capo dello Stato Giorgio Napolitano».
Normale che il Cavaliere non sia entusiasta di questo rapporto privilegiato. E la notizia dell’imminente trasvolata oceanica del presidente della Repubblica non ha migliorato il suo umore. Gli sherpa diplomatici gli hanno spiegato le motivazioni protocollari, prima tra tutte il fatto che il presidente degli Stati Uniti è capo di Stato e quindi è preferibile che abbia incontri con i propri omologhi, come Napolitano. Ma, a quanto raccontano, sono argomentazioni che non hanno persuaso Berlusconi.
© Libero. Pubblicato il 22 maggio 2010.
La lotta alla mafia è senza dubbio importante, ma per gli Stati Uniti quella al terrorismo lo è ancora di più. Ed è innanzitutto a questa che pensava ieri Lanny A. Breuer, sottosegretario del Dipartimento penale americano, quando, parlando in una conferenza stampa all’ambasciata di via Veneto, ha detto: «Non vorremmo mai che succedesse qualcosa che impedisse ai magistrati italiani di fare l’ottimo lavoro svolto finora. Le intercettazioni sono uno strumento essenziale per le indagini». Uno stop che più chiaro non si può alla legge messa in cantiere dal governo Berlusconi, al quale poco o nulla toglie la precisazione di rito fatta in serata dallo stesso Breuer: «Non spetta a me entrare nel merito di decisioni politiche o giudiziarie riguardanti l’Italia».
Proprio le divergenze di opinioni su questa norma tra l’esecutivo di Washington e quello di Roma stanno rafforzando i rapporti che legano Barack Obama a Giorgio Napolitano. Del resto, non da oggi, la Casa Bianca ritiene il presidente della Repubblica un interlocutore più in sintonia con i desideri americani di quanto non lo sia il Cavaliere. Motivo che ha spinto Obama a chiedere un incontro, organizzato in tempi da record: il 17 maggio, subito dopo aver accettato l’invito del presidente americano, Napolitano ha annunciato che si recherà a Washington il 25 maggio, per una visita-lampo. A rendere la prassi ancora più insolita c’è il fatto che il presidente americano sia piuttosto parco nel concedere visite ai leader europei, ma Napolitano, evidentemente, rappresenta l’eccezione. In rappresentanza dell’esecutivo, ad ogni buon conto, sarà con lui il ministro degli Esteri, Franco Frattini.
Dunque, anche se agli occhi del governo Berlusconi e di tanti italiani quello compiuto ieri da Breuer è un intervento a gamba tesa negli affari interni di un Paese alleato, per gli americani ancora una volta tutto, o quasi, si spiega con la lotta al terrorismo, che a Washington ritengono sia affare di loro competenza più o meno esclusiva. Appelli come quello lanciato nei giorni scorsi dal procuratore aggiunto di Milano Armando Spataro, secondo il quale «se passasse la legge sulle intercettazioni sarebbero a rischio anche le indagini sul terrorismo internazionale», poiché spesso queste iniziano da «reati secondari, come l’immigrazione clandestina e la falsificazione di documenti», non sono passati inosservati. Specie a quei settori dell’intelligence americana che hanno bisogno che nel Paese al centro del Mediterraneo i controlli telefonici continuino ad essere fatti ad ampio raggio e con grande discrezionalità. E l’amministrazione Obama, al pari di quella che l’ha preceduta, fa presto a tradurre questi allarmi in una questione politica di primo livello.
Il fatto che ieri Breuer abbia preferito parlare di lotta alla mafia, anziché di lotta al terrorismo, può spiegarsi anche con la volontà di evitare ricordi imbarazzanti: l’ultima volta che gli Stati Uniti si sono occupati di contrasto al terrorismo in Italia fu quando agenti della Cia rapirono l’imam egiziano Abu Omar, e sappiamo come andò a finire.
La richiesta di cambiare la legge sulle intercettazioni, prima di diventare pubblica, era stata avanzata dall’amministrazione americana in modo riservato. Ad esempio durante il pranzo che la scorsa settimana l’ambasciatore a Roma, David H. Thorne, ha avuto con il ministro dell’Interno, Roberto Maroni. O nei tanti colloqui che i rappresentanti diplomatici di Washington hanno avuto con esponenti dell’esecutivo e del PdL, incluso lo stesso sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Gianni Letta. Però manca, agli occhi del Dipartimento di Stato e della stessa Casa Bianca, un interlocutore affidabile, capace di garantire che certe operazioni vadano a buon fine, o quantomeno in grado di dare una risposta chiara e definitiva. Lo stesso Gianfranco Fini, che i suoi amano dipingere come il nuovo oggetto delle brame di Washington, sempre in cerca di leader “emergenti” su cui puntare, in realtà oltre oceano non è visto come un cavallo vincente.
Napolitano, invece, unisce alla sua autorità un feeling eccellente con Obama. Sulla legge per regolare le intercettazioni c’è piena identità di vedute: più volte il presidente della Repubblica italiano è intervenuto nel dibattito per chiedere «regole condivise» e «senso della misura». Appello rivolto a tutte le parti, ma in primis a governo e maggioranza. E a livello personale i suoi rapporti con Obama sono idilliaci. Non da oggi: lo scorso luglio il Times di Londra, nelle cronache del G8 abruzzese, riportava che «Barack Obama si è lanciato in un copioso elogio per un grande leader nazionale, che ha l’ammirazione di tutto il popolo italiano. Obama non parlava di Silvio Berlusconi, ma del Capo dello Stato Giorgio Napolitano».
Normale che il Cavaliere non sia entusiasta di questo rapporto privilegiato. E la notizia dell’imminente trasvolata oceanica del presidente della Repubblica non ha migliorato il suo umore. Gli sherpa diplomatici gli hanno spiegato le motivazioni protocollari, prima tra tutte il fatto che il presidente degli Stati Uniti è capo di Stato e quindi è preferibile che abbia incontri con i propri omologhi, come Napolitano. Ma, a quanto raccontano, sono argomentazioni che non hanno persuaso Berlusconi.
© Libero. Pubblicato il 22 maggio 2010.