De Benedetti silura Bersani

di Fausto Carioti

Carlo De Benedetti è un gatto e la sinistra è il suo gomitolo. La prende a zampate, la srotola, l’arrotola. Fin quando non si stufa e decide di passare a qualcos’altro. Tanto, a fare e disfare, quando lui non c’è, ci pensano Repubblica e gli altri suoi giornali. Ogni volta il gomitolo rosso ne esce un po’ più malconcio e sfilacciato di prima. Ma è sempre lì, a disposizione. De Benedetti ha appena ricominciato a ronzarci attorno.

Che non avesse grande stima per Massimo D’Alema, il quale affettuosamente ricambia, è cosa nota. Che l’Ingegnere e i direttori delle sue testate si siano assegnati la missione di dettare la linea alla sinistra e ai suoi leader, è un dato di fatto. Si era intuito, ad esempio, che Pier Luigi Bersani non va a genio a tutti costoro. Poche settimane fa Ezio Mauro, che di Repubblica è il direttore, aveva posato una lapide sulle ambizioni del segretario del Pd. Intervistato dall’Espresso, il settimanale del gruppo, con quella modestia che da sempre contraddistingue casa Scalfari, Mauro aveva spiegato al Partito democratico e alla opposizione tutta cosa devono fare. Primo punto: rottamare Bersani. Per carità, «è una persona per bene, gode di una leadership forte legittimata dalla primarie, conosce i problemi del paese». Però «dovrebbe capire che la speranza da cui è nato il Pd era un’altra». Secondo: accogliere «energie nuove», farsi guidare nella sfida contro Silvio Berlusconi da «un leader che non risponda ad apparati e cursus honorum tradizionali. Che esprima una discontinuità». Un «papa straniero», insomma. Tutti avevano pensato a Luca Cordero di Montezemolo. Mauro, raccontano i suoi, in realtà ha in mente Mario Draghi, governatore della Banca d’Italia. Il quale, però, a farsi asfaltare da Berlusconi per simpatia nei confronti di Repubblica non ci pensa proprio. Così l’unica cosa che i comuni mortali riescono a capire del Mauro-pensiero è che il leader del centrosinistra può essere chiunque, ma non Bersani o D’Alema.

Però, insomma, ancora non si era arrivati ai livelli che si possono leggere nel libro “Guzzanti vs De Benedetti”. Dice l’Ingegnere in queste pagine: «Io credo che D’Alema abbia fatto tantissimi errori e non capisca più la sua gente, come il caso Puglia insegna. In quanto a Berlusconi, il mio giudizio su di lui come uomo politico è estremamente negativo, ma almeno Silvio ha fatto qualcosa. D’Alema e quelli come lui non hanno fatto niente». Il che, detto dal peggiore nemico di Berlusconi nonché editore di riferimento della sinistra, un po’ fa pensare. Se il giudizio di De Benedetti su D’Alema può comunque essere messo nel conto, quello sul segretario in carica è inedito, se non altro per la durezza dei toni: «Io stimo moltissimo Bersani: è stato un eccellente ministro e di lui come persona e uomo di governo posso soltanto dir bene. Ma come leader? Suvvia, è totalmente inadeguato. Lui e D’Alema stanno ammazzando il Pd».

Tipico: l’Ingegnere e i suoi sono specializzati nel battezzare in anticipo - e seppellire con fretta ancora maggiore - i leader della sinistra. Spesso si tratta degli stessi personaggi: prima costruiti come candidati premier, poi - una volta demoliti alle urne da Berlusconi - condannati all’oblio dei perdenti. Prendete Francesco Rutelli e Walter Veltroni, i due sui quali De Benedetti, in vista del declino del suo amico Romano Prodi, aveva scommesso già nel 2005. Li lanciò alla guida del centrosinistra dicendo in pubblico: «È il vostro secolo». Preparò l’incontro di Rutelli con George Soros, il re degli speculatori, presentandogli il suo pupillo come «un giovane brillante politico italiano». Al Corriere rivendicò di avere avuto un ruolo nella candidatura di Rutelli nel 2001. E lodò Veltroni: uno «giovane, intelligente e moderno». Fosse stato per lui, sarebbe stato candidato premier già nel 2006. Era il 30 novembre del 2005 quando, a un convegno della Margherita con Veltroni e Rutelli, De Benedetti si disse pronto a essere dei loro: «La tessera numero 1 del Partito democratico la prendo io, se volete». Due anni dopo era in fila ai gazebo per votare Veltroni alle primarie. Repubblica, manco a dirlo, la pensava proprio come lui. Magnificava i due dioscuri e randellava i loro rivali. Soprattutto quelli interni.

Poi, però, nel 2008 succede che Veltroni perde in malo modo contro Berlusconi. E Rutelli è sconfitto da Gianni Alemanno nella corsa al Campidoglio. In pochi mesi, le «giovani» speranze lanciate da Repubblica sono diventate due pensionati baby della politica. De Benedetti se ne fa subito una ragione: «Non ho e non avrò mai la tessera di alcun partito». E quella richiesta di prendere la tessera del Pd di Veltroni e Rutelli? «Era una battuta». Il gatto si era stufato.

Da allora, però, lui e Repubblica non sanno che pesci prendere. Aspettano quel «papa straniero» che non arriva e forse non ci sarà mai. Nell’attesa scrutano le mosse del ticket nascente, quello composto da Veltroni e Nichi Vendola. Ma è chiaro che lo fanno solo per dare fastidio a Bersani e perché non hanno nulla di meglio tra le mani. Per un po’ si erano illusi che l’uomo giusto fosse Renato Soru, l’imprenditore sardo fondatore di Tiscali. Pure lui ci aveva creduto: intervistato dall’Espresso, già parlava da leader del centrosinistra: «Dimostrerò che Berlusconi si può battere. Come ha fatto Prodi due volte». Soru si riferiva alle regionali sarde, dove era candidato come governatore. Da lì avrebbe potuto fare il salto alla guida della coalizione nazionale. Però quelle elezioni, un anno fa, sono state vinte da Ugo Cappellacci, figlio di un commercialista del Cavaliere. E la testa impagliata dell’Obama di Sanluri è finita tra i trofei di villa Certosa. Confermando una delle battute più diffuse nell’infame ambiente del giornalismo: l’appoggio di Repubblica, per un politico, è il bacio della morte.

© Libero. Pubblicato il 13 maggio 2010.

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