Quelli che la democrazia non si poteva esportare

di Fausto Carioti

Con quale faccia Repubblica ieri esultava in prima pagina perché «In Iraq la democrazia ha vinto»? Quanto sprezzo del ridicolo ci vuole, a largo Fochetti, per mettere in prima pagina le foto delle dita delle donne irachene sporche di inchiostro viola, simbolo del voto appena effettuato? Fosse stato per il quotidiano di Ezio Mauro, e per quei pacifisti che Repubblica incitava e difendeva, in Iraq non ci sarebbe stato alcun polpastrello viola, non si sarebbe insediata alcuna democrazia. L’Iraq sarebbe ancora il giardino di casa Hussein, in cui il dittatore fa quello che vuole, e cioè cose ben più gravi del negare il diritto al voto, dal momento che includono gli omicidi di stato e le stragi di massa. E questo vale per Repubblica, ma anche per tutta quella sinistra italiana che contro la missione in Iraq aveva messo le bandiere della pace nei propri manifesti, sui simboli elettorali, sugli striscioni nelle piazze, e adesso applaude imbarazzata - o nei casi più dignitosi fa finta di niente - davanti all’ennesimo passo in avanti della neonata libertà irachena.

Perché va bene che adesso alla Casa Bianca non c’è più George W. Bush, ma un santo laico come Barack Obama, e quindi qualunque cosa accada sotto l’ombrello degli Stati Uniti assume inevitabilmente un sapore diverso, più nobile e solare. Anche quando fanno le stesse cose di prima (il lavoro sporco in Iraq e in Afghanistan, il carcere di Guantanamo la cui chiusura rischia di essere posticipata per l’ennesima volta) con gli stessi uomini di prima (Robert Gates, segretario alla Difesa di Obama, svolgeva identico ruolo nell’amministrazione Bush), gli Stati Uniti ora non sono più l’emanazione del lato oscuro della forza. Però qui si è passati direttamente dal crocifiggere Bush-Darth Vader perché voleva «esportare la democrazia» nel mondo all’elegia della democrazia irachena esportata dai soldati americani, senza nemmeno avere il buon garbo di dire grazie (figuriamoci chiedere scusa) all’unico che ci aveva creduto sul serio, e che proprio per questo avevano deriso e insultato.

Tanto per capirsi: il 10 maggio del 2004 il direttore di Repubblica, Ezio Mauro, aveva chiesto all’Italia di rompere la «solidarietà occidentale» e ritirarsi dall’Iraq. Perché «la guerra era sbagliata, perché mancavano sia le armi di distruzione di massa, sia i legami operativi tra Saddam e Bin Laden, cioè le due pseudoragioni del conflitto. Era illegittima perché fuori dalla legalità internazionale, atto fondativo dell’unilateralismo libero e autonomo della superpotenza egemone. Era un errore anche politico perché spaccava l’Europa tra vecchia e nuova e rompeva la lunga alleanza novecentesca tra i due continenti». Peccato che le cancellerie europee, disinteressate - per non dire contrarie - a esportare la democrazia in qualsivoglia posto del mondo, non avessero alcuna intenzione di rimuovere Saddam Hussein. Ci voleva il biasimato «unilateralismo» della deplorevole «superpotenza egemone» per far sloggiare il tiranno. Il cinismo e la presunzione europei erano riassunti bene, sempre su Repubblica, da Eugenio Scalfari, che a fine agosto del 2004 sentenziava: «È caduta l’illusione di esportare in Iraq la democrazia, sia pure con imperfezioni vistose e adattamenti al costume locale». Roba simile, scritta su quelle pagine negli ultimi anni, se ne trova a bizzeffe.

Poi, come se nulla fosse, succede che su Repubblica di ieri l’inviato da Bagdad inizia il suo articolo così: «La chiamo “la battaglia della democrazia” e credo proprio di avere ragione. Non si possono definire altrimenti gli avvenimenti, a tratti micidiali ma in complesso esemplari, a volte persino esaltanti, che hanno ritmato le elezioni». Capito come funziona, da quelle parti? Basta passare con nonchalance dalla «illusione della democrazia da esportare» alla elegia della «battaglia della democrazia», vinta con un’affluenza altissima, semplicemente fingendo di non avere sbagliato tutto quello che si poteva sbagliare, e confidando come sempre sulla scarsa memoria altrui.

La strada, del resto, l’ha tracciata lo stesso Obama. Lui che nel 2007, da semplice senatore dell’Illinois, aveva votato contro la legge sul rifinanziamento della missione in Iraq, dicendo «sono orgoglioso di essermi opposto a questa guerra fin dall’inizio», e che nei dibattiti elettorali, poche settimane prima del voto che lo elesse presidente, diceva: «Ancora non capisco perché abbiamo invaso l’Iraq. La guerra in Iraq ci è già costata 700 miliardi di dollari e continua a costarci 10 miliardi al mese», l’altro giorno, quando si è capito che sarebbe stato un successo, ha definito il voto iracheno «una pietra miliare» per la storia del Paese. Si fossero comportati tutti come lui, i senatori americani, quella pietra non sarebbe mai stata posata. E di sicuro Obama avrebbe fatto una figura migliore se avesse speso mezza parola per il suo predecessore, e per quei pazzi dei neocon repubblicani che avevano creduto alla possibilità di trasformare l’Iraq in una democrazia. I fatti dicono che avevano ragione loro, ma ammetterlo, per i loro avversari, è ancora troppo imbarazzante.

© Libero. Pubblicato il 9 marzo 2010.

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