Ora o mai più

di Fausto Carioti

Bene Silvio, forza Berlusconi, applausi al grande premier. La vittoria alle regionali è tutta sua, e se proprio deve condividerne il merito con qualcuno è con i grandi strateghi del centrosinistra, che per l’ennesima volta hanno abboccato all’amo e ingoiato esca, lenza e mulinello, trasformando le elezioni amministrative in un referendum sul presidente del Consiglio. Che è finito come gli altri cento referendum che lo hanno preceduto: con Berlusconi che passa all’incasso e le menti dell’opposizione che si interrogano su dove hanno sbagliato. Reso omaggio al vincitore, però, ora tocca richiamarlo ai suoi doveri: Berlusconi faccia le riforme, le faccia sul serio e inizi a farle subito, se davvero vuole terminarle entro la legislatura. Ne va della sua faccia e delle sue ambizioni future (vedi alla voce Quirinale). La frase con cui ieri il premier ha annunciato che intende lavorare «alle riforme necessarie per l’ammodernamento e lo sviluppo del nostro Paese» promette bene, ma siccome non è la prima volta che la ascoltiamo (ad esempio la si era già sentita all’inizio della legislatura, e da allora sono passati due anni) sarà meglio capovolgere subito la clessidra.

Non perché sia vero quello che dice la sinistra, e cioè che l’esecutivo sinora non ha fatto nulla. La riforma della scuola voluta da Mariastella Gelmini, per dirne una, è lì a dimostrarlo. Ma perché è vero che gli elettori si attendono molto di più da un governo come questo, che in ambedue i rami del Parlamento può contare su una maggioranza solidissima, e da una coalizione che stavolta non ha l’Udc tra le scatole. Tanto più ora che sono iniziati tre anni senza elezioni degne di questo nome: le prossime saranno le politiche del 2013, e quindi il tempo per lavorare bene c’è tutto. Il triennio si è aperto ieri con quel forte sostegno politico, espresso dal voto alle regionali, che Berlusconi aveva chiesto proprio per avere la forza necessaria ad affrontare le riforme. Ora il presidente del Consiglio ha davanti un’opportunità irripetibile per cambiare l’Italia. Da adesso in poi non ci sono scuse. Ora o mai più.

Ad esempio. «La giustizia italiana ha bisogno di una grande riforma perché siamo ancora lontani da un corretto equilibrio tra la domanda di giustizia e la capacità di risposta giudiziaria. L’emergenza penale ha consentito in alcuni casi di costruire indagini senza riscontri e di pronunciare condanne senza prove». Sembra detta ieri, vero? Invece è stata pronunciata da Berlusconi nell’ottobre del 2001. Sono dieci anni che gli italiani attendono una riforma della giustizia. Da allora la situazione nei tribunali è peggiorata, e aver tergiversato non è servito a rasserenare i rapporti tra politica e magistratura. Al contrario, questi si sono incancreniti giorno dopo giorno. Qualche norma sulla giustizia, nel frattempo, è stata varata. Ma si tratta in gran parte di norme utili a sottrarre lo stesso Berlusconi e i suoi dalle grinfie di toghe più o meno rosse. Non che non ce ne fosse bisogno: se la magistratura ha dichiarato guerra alla politica, o anche al solo Berlusconi, chi è eletto dal popolo ha il diritto di difendersi. Diamo pure per scontato che continuerà a farlo. Gli italiani che votano Berlusconi, ormai, la pensano come lui: da un recente sondaggio fatto da Demos per Repubblica emerge che 7 elettori su 10 del PdL e 6 su 10 della Lega considerano i magistrati «attori politici, alleati, anzi la guida dell’opposizione». Mica gli angeli senza macchia dipinti da Antonio Di Pietro. Però, appunto, non si può pretendere di ridurre i problemi della giustizia a questo. C’è altro, che riguarda tutti, e spetta al governo e alla maggioranza trovare la soluzione.

Oppure la riforma fiscale. La «drastica riduzione delle aliquote» Irpef per arrivare all’aliquota unica del 30% è stata la prima grande proposta berlusconiana, e risale nientemeno che al 1994, quando a passare le idee al premier era un certo Antonio Martino. È chiaro che a Giulio Tremonti non è mai andata giù. Il ministro dell’Economia adesso sembra distinguere tra «riforma» del fisco e riduzione della pressione fiscale, come se la prima si potesse fare senza la seconda. Ma più che il suo parere, salvo prova contraria, conta quello di Berlusconi. E il premier non ha mai smesso di mettere in cima alle priorità una riforma che tagli le tasse. Ecco, se vuole mantenere l’impegno il momento è questo, qualunque cosa ne pensino Tremonti e gli altri.

E attento alle trappole. Giorgio Napolitano svolge il suo ruolo ecumenico chiedendo a Berlusconi «riforme condivise», come ha fatto anche ieri. Vale la pena di provarci, come no. Ma con il dovuto scetticismo. Perché il leader del maggiore partito d’opposizione, Pier Luigi Bersani, a parole continua a dirsi disponibile a discuterne, ma non sembra avere la forza politica necessaria a reggere l’urto con i suoi elettori, molti dei quali sono pronti ad abbandonarlo per Di Pietro al minimo cenno di intesa con l’odiato Caimano. Il «no» del Pd a molte novità, come la separazione delle carriere dei magistrati, è scontato sin d’ora, e la nobile esigenza di condividere le riforme con l’opposizione rischia di tradursi presto nell’ennesimo veto della minoranza.

Non che il Cavaliere sia tipo da farsi abbindolare dal Quirinale o dall’opposizione. Ma che possa usare le riottosità altrui come alibi per la propria inerzia e per le incapacità della sua coalizione, questo sì, e non sarebbe manco la prima volta. Se un simile retropensiero c’è, meglio che sparisca subito. Ed è bene anche mettere in conto sin d’ora tutti gli ostacoli interni. Gianfranco Fini ha dovuto prendere atto della forza elettorale del Cavaliere e ieri ha riconosciuto ufficialmente che il vero vincitore delle regionali è stato il premier. Il presidente della Camera ha anche chiesto un incontro per trovare una proposta di riforme condivisa con l’alleato-rivale. Ma simili idilli tra i due, di solito, durano poco. E sinora, quando si è trattato di scegliere tra Berlusconi e Napolitano, i finiani non hanno mostrato dubbi nel preferire il secondo al primo. Inoltre gli uomini di Fini hanno un’idea di presidenzialismo assai più morbida di quella berlusconiana. Loro guardano alla Francia e al suo sistema semi-presidenziale, nel quale il primo ministro non è eletto dal popolo, ma nominato da un presidente della Repubblica, che è scelto a sua volta a suffragio universale. Mentre il leader del Popolo della Libertà, se potesse, adotterebbe in Italia qualcosa di molto simile al modello statunitense.

Quanto alla Lega, è chiaro che fa un gioco tutto suo, e i siluri con cui a Venezia ha appena affondato Renato Brunetta lo spiegano meglio di mille discorsi. Insomma, Berlusconi dovrà prendere scelte difficili e tirare la corda con gli alleati. Ma è anche da come naviga tra simili scogli che un leader si guadagna il diritto di passare alla storia. Di sicuro, gli elettori non perdonerebbero tre anni di inerzia, ed è al solo Berlusconi che li imputerebbero.

© Libero. Pubblicato il 31 marzo 2010.

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