Napolitano si è rotto di Repubblica

di Fausto Carioti

Alle undici del mattino di ieri la notizia è diventata ufficiale: Giorgio Napolitano si è rotto le scatole di Repubblica. È dall’inizio della legislatura che quelli di largo Fochetti lo tirano per la giacca. Su ogni legge approvata dalla maggioranza, su ogni decreto varato dal governo si ripete la solita scena: prima Repubblica scrive che la norma in questione è un attentato alla democrazia, alle libertà fondamentali dell’uomo, alla pace nel mondo o a tutte queste cose messe insieme più altre. Poi assicura che Napolitano è orientato a non firmarla perché la ritiene incostituzionale (confondere la realtà con i propri desideri, e spacciare questa operazione per scoop, è una delle specialità più antiche di casa Scalfari). Però il capo dello Stato, che pure si consulta con dotti giuristi, alcuni dei quali vicini a Repubblica, alla fine decide con la testa sua, non con quella dei confidenti del quotidiano. E infatti, nove volte su dieci, la firma la mette. A questo punto ai lettori di Repubblica, prima illusi poi delusi, non resta che prendersela con Napolitano, colpevole di avallare le liberticide norme berlusconiane. Ecco, a questo giochino il Quirinale ha detto basta.

In cima alla rassegna stampa del Colle, ieri mattina, spiccava proprio l’articolo apparso sulla prima pagina di Repubblica. Già il titolo ha fatto sobbalzare il pover’uomo: «Il no di Napolitano alla legge che evita l’articolo 18». La norma presa di mira stavolta era «il famigerato ddl 1167-B, quello che introduce la possibilità preventiva di ricorrere all’arbitro, invece che al giudice, in caso di controversie di lavoro». Dopo aver garbatamente ricordato al presidente della Repubblica che alla manifestazione di sabato c’era gente che ostentava magliette viola con la scritta «Pertini non avrebbe firmato» (sottinteso: il decreto salva-liste approvato in fretta e furia dal governo per rimediare agli errori commessi dal PdL in Lazio e Lombardia, peraltro rivelatosi inutile), Repubblica faceva sapere che il capo dello Stato «sta meditando seriamente di rinviare alle Camere» la legge in questione.

Napolitano, che ne aveva già subite tante, non ha retto e ha dettato al suo ufficio stampa poche righe, molto dure: «È priva di fondamento l’indiscrezione di stampa secondo la quale il Presidente della Repubblica avrebbe già assunto un orientamento a proposito della promulgazione del disegno di legge 1167-B». Per essere ancora più chiari, e far capire che non è il caso di continuare con certi trucchetti, la nota del Quirinale dice che Napolitano respinge «ogni condizionamento che si tenda a esercitare nei suoi confronti anche attraverso scoop giornalistici». Insomma, compagni di Repubblica, smettetela che tanto non funziona. Il sito web del quotidiano, dove fino a quel momento campeggiava orgogliosa la “notizia” del «no» di Napolitano, ha riconvertito la home page in fretta e furia. Da conservare per i momenti tristi la risposta data online al capo dello Stato, dove si spiega a Napolitano che in realtà Napolitano non la pensa come dice Napolitano, ma come sostiene Repubblica.

E dire che la casistica avrebbe dovuto far intuire da tempo a Ezio Mauro e ai suoi che, in questo modo, l’unico risultato che ottengono è quello di far incavolare il capo dello Stato (a proposito, chi gli ha parlato ieri assicura che ormai Napolitano sopporti quelli di Repubblica persino meno di quanto riesca a sopportare Berlusconi, il che è tutto dire). Avevano spiegato che il decreto salva-liste non andava firmato, perché - parole di Mauro, che di Repubblica è il direttore - «intervenire da soli, ex post, con norme retroattive, a meno di un mese dalla scadenza elettorale, scrivendo decreti che ricalcano clamorosamente gli sbagli commessi per cancellarli, è un precedente senza precedenti, che peserà nel futuro della Repubblica». Napolitano aveva risposto mettendo la firma su una versione corretta del decreto, perché «non era sostenibile» che alle elezioni «potessero non partecipare nella più grande regione italiana il candidato presidente e la lista del maggior partito politico di governo».

In precedenza era toccato allo scudo fiscale e alla legge sulla sicurezza: anch’esse (a detta di Repubblica) norme da fine della democrazia e della civiltà, anch’esse firmate da Napolitano, per questo accusato di «viltà» dal pacato Antonio Di Pietro. Adesso i repubblicones, sempre più nostalgici di Carlo Azeglio Ciampi, contano di rifarsi con le norme sulla giustizia, iniziando dal legittimo impedimento: già approvato dal Parlamento, attende l’avallo finale del Quirinale. Manco a dirlo Repubblica, nei giorni scorsi, ha fatto sapere che la firma di Napolitano è «a rischio». Presto si vedrà cosa c’è di vero.

Di sicuro, però, la legge sul lavoro che introduce la possibilità, per abbreviare i tempi delle controversie, di rivolgersi a un arbitro invece che al giudice ordinario (solo con il consenso dei lavoratori e se previsto dal contratto nazionale), e che tanto indigna Repubblica, non è una di quelle leggine “di parte” approvate di corsa per volontà di Berlusconi. È un provvedimento che è stato esaminato per ben due anni e in quattro letture dal Parlamento, e che tra le altre cose permette a chi svolge lavori usuranti di andare in pensione prima ed estende la durata dei congedi parentali. Novità viste con favore da tutti i sindacati, incluse Cisl e Uil. Unica eccezione, la Cgil. Deciderà Napolitano se firmare o meno, ma il rischio che il capo dello Stato stia per dare a Repubblica l’ennesimo dispiacere è concreto.

© Libero. Pubblicato il 16 marzo 2010.

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