Le due piazze
di Fausto Carioti
C’è una vulgata curiosa che si va diffondendo, e che nei prossimi giorni diventerà un tormentone: il ricorso alla piazza organizzato dal centrosinistra è un sano esercizio di democrazia, mentre il ricorso alla piazza annunciato da Silvio Berlusconi è un preoccupante rigurgito di deriva plebiscitaria. Solo che non se ne capisce il motivo. O meglio: si spiega con la pretesa della sinistra italiana di incarnare per definizione tutto ciò che è democratico, e di dipingere un Berlusconi perennemente intento in trame para-eversive. Eppure, tra le due chiamate alla piazza, grandi differenze non ce ne sono. Anzi, se ce n’è una più vicina all’essenza della democrazia - una testa, un voto - è proprio quella del Cavaliere.
I toni usati nei confronti delle istituzioni, innanzitutto. Sono durissimi da ambedue le parti. Berlusconi attacca i giudici, e nel suo messaggio ai Promotori della Libertà di Michela Brambilla accusa le toghe di volere «impedire a milioni di persone di votare per il PdL», compiendo «un sopruso violento e inaccettabile». Parole chiare. Dal fronte opposto, però, l’attacco agli organi costituzionali è ancora più esplicito. Lasciamo perdere le accuse rivolte a Berlusconi da Antonio Di Pietro, che anche ieri ha detto «invitiamo tutti a scendere in piazza contro Lucifero-Berlusconi, il nuovo dittatore». O gli insulti rivolti al premier dal popolo viola. Roba simile ormai fa parte del folklore quotidiano e manco fa più notizia. La vera novità di questi giorni è che si è deciso di passare il segno con il presidente della Repubblica. Prima Di Pietro ha minacciato di mettere Giorgio Napolitano in stato d’accusa. Poi il suo rivale dentro l’Italia dei valori, Luigi De Magistris, ha rincarato la dose dicendo che il capo dello Stato «sta avallando l’attuazione del piano di rinascita democratica ideato da Gelli e oggi realizzato dal premier piduista Berlusconi».
Che quella di sabato sarà anche una manifestazione contro la prima carica dello Stato è evidente, e per capirlo non c’è bisogno che il popolo viola metta su Facebook le fotografie delle magliette da indossare per l’occasione, quelle con scritto «Napolitano, il peggior capo dello stato degli ultimi 150 anni». È una situazione che nel Pd hanno ben presente, come confermano i tentativi disperati dello stato maggiore del partito per scongiurare il disastro. Dapprima volevano impedire a Di Pietro di parlare dal palco, proprio per evitare che attaccasse Napolitano mentre loro sono in piazza a sventolare le bandierine. Ma figuriamoci se quello si lascia sfuggire un’occasione simile a due settimane dal voto. Infatti agli illusi del Pd ha risposto: «Vorrei ricordare che ho lanciato io la manifestazione, ho prenotato io la piazza dopo aver avuto l’idea, ho convocato le persone, predisposto i pullman, coordinato la logistica. E adesso vorrebbero che non parlassi?». Insomma, il padrone di casa è lui, quelli del Pd sono gli ospiti, e non è che gli si possa dare torto. Così hanno provato a sottoporgli una «piattaforma comune» nella quale si sostiene che la colpa di tutto è sempre e solo di Berlusconi. Tonino sottoscrive, ma Bersani e gli altri stanno già pregando che una volta in piazza tenga a freno la lingua e non dica troppe scemenze sul Quirinale. Auguri.
Poi c’è da dire delle motivazioni. E qui la bilancia pende tutta dalla parte del Cavaliere. Parliamoci chiaro: il motivo vero delle proteste e della manifestazione della sinistra è che vogliono andare al voto senza avversari. Che non è il massimo della democrazia, come ha cercato di spiegare lo stesso Napolitano. Mentre del Berlusconi di questi giorni tutto si può dire, tranne che non abbia un obiettivo democratico: consentire a un partito che rappresenta un terzo degli elettori di essere presente in lista. Un’esigenza difesa molto bene, sulle colonne di Avvenire (quotidiano che, dopo quanto accaduto a Dino Boffo, di certo non può essere accusato di simpatie berlusconiane), dal giurista Francesco D’Agostino: «Il valore ultimo del diritto non è il rispetto delle forme, ma la giustizia. E giustizia vuole che in una competizione elettorale gli elettori di un partito radicato e a vocazione maggioritaria nel Paese non possano essere esclusi dal voto». Punto. Tutto il resto è un arrampicarsi sugli specchi per giustificare la pretesa di correre senza avversari.
Impossibile, infine, prendere sul serio la sinistra quando dice - come ha fatto Pier Luigi Bersani - che i partiti di governo non scendono in piazza. Perché non è vero: fosse così, le manifestazioni elettorali (e la chiamata in piazza di Berlusconi è a tutti gli effetti una manifestazione elettorale, al pari di quella organizzata dal centrosinistra per sabato) sarebbero riservate alla sola opposizione. E così non è, per fortuna.
© Libero. Pubblicato l'11 marzo 2010.
C’è una vulgata curiosa che si va diffondendo, e che nei prossimi giorni diventerà un tormentone: il ricorso alla piazza organizzato dal centrosinistra è un sano esercizio di democrazia, mentre il ricorso alla piazza annunciato da Silvio Berlusconi è un preoccupante rigurgito di deriva plebiscitaria. Solo che non se ne capisce il motivo. O meglio: si spiega con la pretesa della sinistra italiana di incarnare per definizione tutto ciò che è democratico, e di dipingere un Berlusconi perennemente intento in trame para-eversive. Eppure, tra le due chiamate alla piazza, grandi differenze non ce ne sono. Anzi, se ce n’è una più vicina all’essenza della democrazia - una testa, un voto - è proprio quella del Cavaliere.
I toni usati nei confronti delle istituzioni, innanzitutto. Sono durissimi da ambedue le parti. Berlusconi attacca i giudici, e nel suo messaggio ai Promotori della Libertà di Michela Brambilla accusa le toghe di volere «impedire a milioni di persone di votare per il PdL», compiendo «un sopruso violento e inaccettabile». Parole chiare. Dal fronte opposto, però, l’attacco agli organi costituzionali è ancora più esplicito. Lasciamo perdere le accuse rivolte a Berlusconi da Antonio Di Pietro, che anche ieri ha detto «invitiamo tutti a scendere in piazza contro Lucifero-Berlusconi, il nuovo dittatore». O gli insulti rivolti al premier dal popolo viola. Roba simile ormai fa parte del folklore quotidiano e manco fa più notizia. La vera novità di questi giorni è che si è deciso di passare il segno con il presidente della Repubblica. Prima Di Pietro ha minacciato di mettere Giorgio Napolitano in stato d’accusa. Poi il suo rivale dentro l’Italia dei valori, Luigi De Magistris, ha rincarato la dose dicendo che il capo dello Stato «sta avallando l’attuazione del piano di rinascita democratica ideato da Gelli e oggi realizzato dal premier piduista Berlusconi».
Che quella di sabato sarà anche una manifestazione contro la prima carica dello Stato è evidente, e per capirlo non c’è bisogno che il popolo viola metta su Facebook le fotografie delle magliette da indossare per l’occasione, quelle con scritto «Napolitano, il peggior capo dello stato degli ultimi 150 anni». È una situazione che nel Pd hanno ben presente, come confermano i tentativi disperati dello stato maggiore del partito per scongiurare il disastro. Dapprima volevano impedire a Di Pietro di parlare dal palco, proprio per evitare che attaccasse Napolitano mentre loro sono in piazza a sventolare le bandierine. Ma figuriamoci se quello si lascia sfuggire un’occasione simile a due settimane dal voto. Infatti agli illusi del Pd ha risposto: «Vorrei ricordare che ho lanciato io la manifestazione, ho prenotato io la piazza dopo aver avuto l’idea, ho convocato le persone, predisposto i pullman, coordinato la logistica. E adesso vorrebbero che non parlassi?». Insomma, il padrone di casa è lui, quelli del Pd sono gli ospiti, e non è che gli si possa dare torto. Così hanno provato a sottoporgli una «piattaforma comune» nella quale si sostiene che la colpa di tutto è sempre e solo di Berlusconi. Tonino sottoscrive, ma Bersani e gli altri stanno già pregando che una volta in piazza tenga a freno la lingua e non dica troppe scemenze sul Quirinale. Auguri.
Poi c’è da dire delle motivazioni. E qui la bilancia pende tutta dalla parte del Cavaliere. Parliamoci chiaro: il motivo vero delle proteste e della manifestazione della sinistra è che vogliono andare al voto senza avversari. Che non è il massimo della democrazia, come ha cercato di spiegare lo stesso Napolitano. Mentre del Berlusconi di questi giorni tutto si può dire, tranne che non abbia un obiettivo democratico: consentire a un partito che rappresenta un terzo degli elettori di essere presente in lista. Un’esigenza difesa molto bene, sulle colonne di Avvenire (quotidiano che, dopo quanto accaduto a Dino Boffo, di certo non può essere accusato di simpatie berlusconiane), dal giurista Francesco D’Agostino: «Il valore ultimo del diritto non è il rispetto delle forme, ma la giustizia. E giustizia vuole che in una competizione elettorale gli elettori di un partito radicato e a vocazione maggioritaria nel Paese non possano essere esclusi dal voto». Punto. Tutto il resto è un arrampicarsi sugli specchi per giustificare la pretesa di correre senza avversari.
Impossibile, infine, prendere sul serio la sinistra quando dice - come ha fatto Pier Luigi Bersani - che i partiti di governo non scendono in piazza. Perché non è vero: fosse così, le manifestazioni elettorali (e la chiamata in piazza di Berlusconi è a tutti gli effetti una manifestazione elettorale, al pari di quella organizzata dal centrosinistra per sabato) sarebbero riservate alla sola opposizione. E così non è, per fortuna.
© Libero. Pubblicato l'11 marzo 2010.