Solo la politica può liberare la famiglia dalla politica
Botta e risposta, ovviamente su Libero, tra il sottoscritto e l'amico Alberto Mingardi. Argomento: i confini che debbono difendere la famiglia dall'ingerenza dello Stato. Il mio articolo è la risposta a quello di Alberto.
di Fausto Carioti
Si fa presto a dire che spetta alle famiglie, e solo ad esse, difendere le loro libertà dalla longa manus dello Stato. Magari fosse così semplice. Vorrebbe dire che la politica non ha ancora allungato le sue zampacce sulla nostra sfera privata e sul modo con cui educhiamo i nostri figli. Se le cose stessero davvero così, basterebbe alzare una trincea e difenderla con le unghie e con i denti. Ma così non è. Perché lo Stato si è già accampato da tempo nelle nostre camere da letto e nelle stanzette dei nostri bambini. Quella che serve, adesso, è una guerra di liberazione per mandarlo via il prima possibile. Il paradosso - o la fregatura, se si preferisce - è che questa guerra di liberazione deve passare attraverso la politica e le sue istituzioni: solo un buono Stato può difendere i diritti delle famiglie dallo Stato. È fastidioso, ma è così che funziona.
Il problema, insomma, è nel manico, ed è il problema antico dei liberali (ovvero di quelli che non vogliono rotture di scatole da legulei e burocrati): non sopportano lo Stato, ma sono costretti a farci i conti perché senza di esso staremmo tutti molto peggio. Senza lo Stato, e senza le istituzioni attraverso cui esso agisce sui cittadini, ovvero la politica, le relazioni tra individui sarebbero regolate dalla costituzione materiale in vigore nelle borgate romane: «Chi mena prima mena due volte». Ma lo Stato, o meglio i suoi burocrati e legislatori, hanno la pessima abitudine di non limitarsi al minimo indispensabile, cioè difenderci da chi ci vuole fare del male e poco di più. Pretendono di regolare ogni aspetto della nostra vita sociale e di farlo con i nostri soldi. E, ovviamente, hanno tutti gli strumenti per riuscirci. Hai voglia a dire che la famiglia è l’istituzione naturale che si contrappone allo Stato, creatura artificiale. Famiglia e Stato non sono due sfidanti in condizione paritaria. L’uno fa le leggi e mette le tasse. L’altra obbedisce e mette mano al portafogli.
Il fatto che il “balance of power” tra le due istituzioni sociali più importanti penda a favore dello Stato influenza negativamente la libertà delle famiglie. Un esempio banale. Il regime fiscale italiano è privo del quoziente familiare. Ovvero non divide il reddito complessivo dei coniugi soggetto all’Irpef per il numero dei componenti familiari. In questo modo penalizza le famiglie più numerose. Non è solo una questione di soldi. Così facendo, il fisco incoraggia le famiglie a fare meno figli e contribuisce a schiacciare il tasso di fertilità italiano a 1,28 figli per donna, uno dei più bassi del mondo occidentale, e, per inciso, ben al di sotto del tasso minimo necessario a mantenere stabile la popolazione (pari a 2,1 figli per donna). Domanda: uno Stato che disincentiva la procreazione e contribuisce al suicidio demografico ed economico dei suoi cittadini (il rapporto attuale di un figlio ogni due adulti vuol dire che nel giro di una generazione per ogni lavoratore ci saranno due pensionati) non rappresenta già oggi una grave minaccia per le famiglie?
E ancora. Tutti i genitori vorrebbero essere liberi di scegliere per i loro figli l’educazione che ritengono migliore. Ma pochi di loro, solo i più ricchi, possono farlo, perché - anche se tutti pagano le tasse con cui è finanziata l’istruzione - lo Stato consente la frequenza gratuita solo negli istituti pubblici, ovviamente laici. Domanda: uno Stato che condiziona la libertà d’educazione dei genitori non è già andato oltre quelli che dovrebbero essere i suoi limiti, non si è già imposto come pericoloso surrogato della famiglia nel suo compito più importante? E - per fare un altro esempio - uno Stato che invariabilmente toglie i figli ai padri divorziati, non è forse uno Stato sessista, autore di una delle peggiori violenze?
L’elenco, come si vede, si può allungare senza difficoltà. La vera battaglia da fare, quindi, non è pretendere che Parlamento e governo si impegnino in favore della famiglia tradizionale (o della famiglia “di fatto”, o della famiglia “omo”, o di qualunque altro tipo di relazione tra individui). La vera battaglia è proprio quella opposta: pretendere da Parlamento e governo una exit strategy dagli affari familiari. Lo Stato deve andarsene via, il prima possibile, dai confini di quel privato che deve riguardare solo moglie, marito e figli.
La buona notizia, in tutto questo, è che alla fine siamo sempre noi elettori, noi famiglie che decidiamo. Non possiamo scriverci le leggi che vorremmo, ma possiamo scegliere chi mandare in Parlamento a rappresentarci e, se non mantiene le promesse che ci ha fatto, possiamo costringerlo a cambiare mestiere. Se scegliamo politici convinti che il compito dello Stato sia togliere alle famiglie oltre la metà del reddito guadagnato, e con quei soldi sostituirle in ogni attività, anche in quelle più importanti - come l’educazione dei figli - il minimo che possiamo aspettarci in cambio sono ministri tipo quelli che compongono il governo Prodi.
© Libero. Pubblicato il 23 dicembre 2006.
di Fausto Carioti
Si fa presto a dire che spetta alle famiglie, e solo ad esse, difendere le loro libertà dalla longa manus dello Stato. Magari fosse così semplice. Vorrebbe dire che la politica non ha ancora allungato le sue zampacce sulla nostra sfera privata e sul modo con cui educhiamo i nostri figli. Se le cose stessero davvero così, basterebbe alzare una trincea e difenderla con le unghie e con i denti. Ma così non è. Perché lo Stato si è già accampato da tempo nelle nostre camere da letto e nelle stanzette dei nostri bambini. Quella che serve, adesso, è una guerra di liberazione per mandarlo via il prima possibile. Il paradosso - o la fregatura, se si preferisce - è che questa guerra di liberazione deve passare attraverso la politica e le sue istituzioni: solo un buono Stato può difendere i diritti delle famiglie dallo Stato. È fastidioso, ma è così che funziona.
Il problema, insomma, è nel manico, ed è il problema antico dei liberali (ovvero di quelli che non vogliono rotture di scatole da legulei e burocrati): non sopportano lo Stato, ma sono costretti a farci i conti perché senza di esso staremmo tutti molto peggio. Senza lo Stato, e senza le istituzioni attraverso cui esso agisce sui cittadini, ovvero la politica, le relazioni tra individui sarebbero regolate dalla costituzione materiale in vigore nelle borgate romane: «Chi mena prima mena due volte». Ma lo Stato, o meglio i suoi burocrati e legislatori, hanno la pessima abitudine di non limitarsi al minimo indispensabile, cioè difenderci da chi ci vuole fare del male e poco di più. Pretendono di regolare ogni aspetto della nostra vita sociale e di farlo con i nostri soldi. E, ovviamente, hanno tutti gli strumenti per riuscirci. Hai voglia a dire che la famiglia è l’istituzione naturale che si contrappone allo Stato, creatura artificiale. Famiglia e Stato non sono due sfidanti in condizione paritaria. L’uno fa le leggi e mette le tasse. L’altra obbedisce e mette mano al portafogli.
Il fatto che il “balance of power” tra le due istituzioni sociali più importanti penda a favore dello Stato influenza negativamente la libertà delle famiglie. Un esempio banale. Il regime fiscale italiano è privo del quoziente familiare. Ovvero non divide il reddito complessivo dei coniugi soggetto all’Irpef per il numero dei componenti familiari. In questo modo penalizza le famiglie più numerose. Non è solo una questione di soldi. Così facendo, il fisco incoraggia le famiglie a fare meno figli e contribuisce a schiacciare il tasso di fertilità italiano a 1,28 figli per donna, uno dei più bassi del mondo occidentale, e, per inciso, ben al di sotto del tasso minimo necessario a mantenere stabile la popolazione (pari a 2,1 figli per donna). Domanda: uno Stato che disincentiva la procreazione e contribuisce al suicidio demografico ed economico dei suoi cittadini (il rapporto attuale di un figlio ogni due adulti vuol dire che nel giro di una generazione per ogni lavoratore ci saranno due pensionati) non rappresenta già oggi una grave minaccia per le famiglie?
E ancora. Tutti i genitori vorrebbero essere liberi di scegliere per i loro figli l’educazione che ritengono migliore. Ma pochi di loro, solo i più ricchi, possono farlo, perché - anche se tutti pagano le tasse con cui è finanziata l’istruzione - lo Stato consente la frequenza gratuita solo negli istituti pubblici, ovviamente laici. Domanda: uno Stato che condiziona la libertà d’educazione dei genitori non è già andato oltre quelli che dovrebbero essere i suoi limiti, non si è già imposto come pericoloso surrogato della famiglia nel suo compito più importante? E - per fare un altro esempio - uno Stato che invariabilmente toglie i figli ai padri divorziati, non è forse uno Stato sessista, autore di una delle peggiori violenze?
L’elenco, come si vede, si può allungare senza difficoltà. La vera battaglia da fare, quindi, non è pretendere che Parlamento e governo si impegnino in favore della famiglia tradizionale (o della famiglia “di fatto”, o della famiglia “omo”, o di qualunque altro tipo di relazione tra individui). La vera battaglia è proprio quella opposta: pretendere da Parlamento e governo una exit strategy dagli affari familiari. Lo Stato deve andarsene via, il prima possibile, dai confini di quel privato che deve riguardare solo moglie, marito e figli.
La buona notizia, in tutto questo, è che alla fine siamo sempre noi elettori, noi famiglie che decidiamo. Non possiamo scriverci le leggi che vorremmo, ma possiamo scegliere chi mandare in Parlamento a rappresentarci e, se non mantiene le promesse che ci ha fatto, possiamo costringerlo a cambiare mestiere. Se scegliamo politici convinti che il compito dello Stato sia togliere alle famiglie oltre la metà del reddito guadagnato, e con quei soldi sostituirle in ogni attività, anche in quelle più importanti - come l’educazione dei figli - il minimo che possiamo aspettarci in cambio sono ministri tipo quelli che compongono il governo Prodi.
© Libero. Pubblicato il 23 dicembre 2006.