Le bugie del cibo organico, equo e solidale
Capita sempre più raramente, ma quando capita è molto bello. The Economist, settimanale che qualche anno fa si poteva definire più o meno "conservative", e che ora non saprei proprio come chiamare, per una volta prova a ricordarci il grande magazine che era e dedica una copertina (nell'edizione europea), un editoriale e una signora inchiesta a una delle più grandi illusioni del marketing contemporaneo: quella del cibo socialmente, ecologicamente ed eticamente responsabile.
Non servono presentazioni, lo abbiamo presente tutti. Lo troviamo negli scaffali della Coop, in quelli di molti altri supermercati e - ormai - anche nella bottega sotto casa. Promette meraviglie: paghi un po' di più, ma in cambio dei tuoi soldi ti viene promesso: a) un cibo di qualità migliore, più saporito e più sano; b) un pianeta più bello, più pulito e più giusto; c) un contadino, da qualche parte del mondo, in un casolare accanto al raccordo anulare o in una fazenda del Mato Grosso, che la sera, invece di andare a svaligiare negozi per far quadrare i conti, ricorda proprio te, consumatore occidentale responsabile, nelle sue preghiere. Difficile dire no a un'offerta simile. Se poi sei di sinistra, ecologista e terzomondista e gli unici libri che hai letto sono quelli di Naomi Klein e Jeremy Rifkin, rifiutare è impossibile.
Solo che è un'illusione. O, se si preferisce, è marketing. Per i consumatori, per l'ambiente e per i contadini il commercio degli alimenti organici e dei prodotti equi e solidali (che sono due cose distinte, ma non di rado gli stessi prodotti sono l'una e l'altra cosa) è un enorme gioco la cui somma è assai più spesso negativa che positiva. I motivi, alcuni dei quali già noti, li mette in fila l'Economist, uno dopo l'altro.
Primo. Il cibo organico, cresciuto senza pesticidi e fertilizzanti chimici, che ogni anno movimenta un giro d'affari da 30 miliardi di dollari, è ritenuto più "environmentally friendly" del cibo coltivato con metodi tradizionali. Ma non è vero. In seguito alla "rivoluzione verde", ovvero all'introduzione nelle coltivazioni di prodotti sintetizzati dall'uomo (qui raccontata dallo scienziato che l'ha resa possibile, Norman E. Borlaug), si è triplicata, dal 1950 al 2000, la produzione mondiale di cereali, a fronte di un aumento delle aree coltivate pari appena al 10%. Se per ottenere la stessa quantità di cibo si fossero usati i metodi precedenti alla "rivoluzione verde", ovvero, in sostanza, i metodi dell'agricoltura organica, come la rotazione delle colture, l'area coltivata avrebbe dovuto essere triplicata rispetto ad allora. E siccome le aree ad uso agricolo sono sottratte agli alberi, delle foreste pluviali tanto care al Wwf e a Greenpeace oggi sarebbe rimasto ben poco. Inoltre questa minore resa delle coltivazioni organiche fa sì che, anche se l'energia necessaria a una piantagione convenzionale è superiore, in termini di quantità di energia usata per cibo prodotto il metodo "organico" di coltivazione si rivela più dispendioso, e quindi meno ecologico. L'inchiesta dell'Economist non ne parla, ma nel conto presto bisognerà mettere pure gli effetti della nuova rivoluzione verde che bussa alle porte, quella del cibo geneticamente modificato. E che promette di consentire rese produttive ben più alte di quelle attuali, valori nutrizionali più elevati e di garantire alle piante una forte resistenza ai virus e ai parassiti senza l'uso di prodotti chimici.
Secondo. Non vi è alcuna prova scientifica che il cibo coltivato con i metodi convenzionali sia in qualsivoglia modo dannoso per la salute, o che il cibo prodotto con metodi organici abbia proprietà nutrizionali più elevate. E' cosa nota, ma repetita juvant.
Terzo. Il commercio equo e solidale, in sostanza, prevede per i produttori un premio per il loro prodotto, sotto forma di un prezzo più elevato rispetto a quello di mercato, ritenuto troppo basso. Il problema è che se il prezzo di un bene (ad esempio del caffè) è basso, è perché vi è una sovrapproduzione di quel prodotto, o quantomeno di una data qualità di esso. Efficienza vorrebbe che il coltivatore cambiasse coltivazione e si dedicasse a qualcosa di più remunerativo, o che si dedicasse a un miglioramento della qualità e delle varietà delle sue coltivazioni. Ma l'extra-prezzo pagato da chi acquista i prodotti equi e solidali rappresenta un incentivo ad andare avanti nell'errore. I prezzi così restano bassi, e chi ci rimette sono soprattutto i coltivatori estranei al giro del commercio equo e solidale, che vedono i prezzi dei loro prodotti schiacciati ulteriormente dalla sovrapproduzione finanziata con i soldi del consumatore occidentale convinto di migliorare le sorti del sud del mondo.
Quarto. Argomento che anche uno di sinistra dovrebbe essere in grado di apprezzare al volo: solo il 10% dell'extra-prezzo pagato dal consumatore per il cibo equo e solidale arriva al coltivatore. Il resto finisce quasi tutto nelle tasche del venditore al dettaglio, convinto - a buona ragione - che di solito il consumatore interessato ad acquistare questi prodotti abbia una elasticità rispetto al prezzo piuttosto bassa. Cioè che sia disposto comunque a pagare un bel sovrapprezzo per mettere in dispensa un prodotto il cui appeal principale è ideologico, non alimentare o economico.
Quinto. L'ultima smania del cibo "ecologicamente sostenibile" è il cibo locale, cioè prodotto, commercializzato e acquistato a due passi dalla casa del consumatore. Ovviamente è l'ennesima riproposizione, in salsa ecologista, delle vecchie tesi protezioniste. Le motivazioni ecologiche risiedono nel tentativo di minimizzare l'energia usata per portare il cibo sulla tavola del consumatore finale. Ma se l'obiettivo è usare meno energia possibile, il modo più efficiente consiste nel commercializzarlo nei grandi supermercati e ipermercati, assai più vicini alla case dei consumatori di quanto non lo siano le aziende agricole che producono gli stessi prodotti. E sono proprio le automobili dei consumatori finali quelle che rendono elevato il consumo di energia. Il ragionamento è intuitivo: è più efficiente far trasportare una tonnellata di cibo da un solo grande veicolo che far trasportare mille chili di esso in altrettante automobili. Domanda: c'è qualcuno a sinistra disposto ad ammettere che la grande distribuzione è il metodo di vendita più ecologico, e quindi migliore per il pianeta? Non solo. Se si mette nel conto anche l'energia usata nel processo produttivo in sé, cioè prima del trasporto del cibo, saltano fuori sorprese interessanti. Ad esempio che sarebbe più ecologico che la Gran Bretagna acquistasse ovini e latticini in Nuova Zelanda piuttosto che produrli sul proprio territorio: l'energia usata per l'allevamento degli animali in Inghilterra, infatti, è talmente tanta che - da un punto di vista di consumo di energia e di emissione di gas serra, per chi crede che esista davvero una cosa chiamata "effetto serra" - il trasporto da posti in cui tale consumo è minimo, anche se lontanissimi, è una soluzione più conveniente.
Così, appena si abbandona l'ebbrezza dei facili luoghi comuni ecologisti e terzomondisti, e si vanno a fare due conti in modo intelligente, si scopre che la divisione del lavoro magnificata da Adam Smith e la globalizzazione garantiscono efficienza non solo da un punto di vista economico, ma anche da quello ambientale. Niente di cui essere stupiti. Almeno da queste parti.
Non servono presentazioni, lo abbiamo presente tutti. Lo troviamo negli scaffali della Coop, in quelli di molti altri supermercati e - ormai - anche nella bottega sotto casa. Promette meraviglie: paghi un po' di più, ma in cambio dei tuoi soldi ti viene promesso: a) un cibo di qualità migliore, più saporito e più sano; b) un pianeta più bello, più pulito e più giusto; c) un contadino, da qualche parte del mondo, in un casolare accanto al raccordo anulare o in una fazenda del Mato Grosso, che la sera, invece di andare a svaligiare negozi per far quadrare i conti, ricorda proprio te, consumatore occidentale responsabile, nelle sue preghiere. Difficile dire no a un'offerta simile. Se poi sei di sinistra, ecologista e terzomondista e gli unici libri che hai letto sono quelli di Naomi Klein e Jeremy Rifkin, rifiutare è impossibile.
Solo che è un'illusione. O, se si preferisce, è marketing. Per i consumatori, per l'ambiente e per i contadini il commercio degli alimenti organici e dei prodotti equi e solidali (che sono due cose distinte, ma non di rado gli stessi prodotti sono l'una e l'altra cosa) è un enorme gioco la cui somma è assai più spesso negativa che positiva. I motivi, alcuni dei quali già noti, li mette in fila l'Economist, uno dopo l'altro.
Primo. Il cibo organico, cresciuto senza pesticidi e fertilizzanti chimici, che ogni anno movimenta un giro d'affari da 30 miliardi di dollari, è ritenuto più "environmentally friendly" del cibo coltivato con metodi tradizionali. Ma non è vero. In seguito alla "rivoluzione verde", ovvero all'introduzione nelle coltivazioni di prodotti sintetizzati dall'uomo (qui raccontata dallo scienziato che l'ha resa possibile, Norman E. Borlaug), si è triplicata, dal 1950 al 2000, la produzione mondiale di cereali, a fronte di un aumento delle aree coltivate pari appena al 10%. Se per ottenere la stessa quantità di cibo si fossero usati i metodi precedenti alla "rivoluzione verde", ovvero, in sostanza, i metodi dell'agricoltura organica, come la rotazione delle colture, l'area coltivata avrebbe dovuto essere triplicata rispetto ad allora. E siccome le aree ad uso agricolo sono sottratte agli alberi, delle foreste pluviali tanto care al Wwf e a Greenpeace oggi sarebbe rimasto ben poco. Inoltre questa minore resa delle coltivazioni organiche fa sì che, anche se l'energia necessaria a una piantagione convenzionale è superiore, in termini di quantità di energia usata per cibo prodotto il metodo "organico" di coltivazione si rivela più dispendioso, e quindi meno ecologico. L'inchiesta dell'Economist non ne parla, ma nel conto presto bisognerà mettere pure gli effetti della nuova rivoluzione verde che bussa alle porte, quella del cibo geneticamente modificato. E che promette di consentire rese produttive ben più alte di quelle attuali, valori nutrizionali più elevati e di garantire alle piante una forte resistenza ai virus e ai parassiti senza l'uso di prodotti chimici.
Secondo. Non vi è alcuna prova scientifica che il cibo coltivato con i metodi convenzionali sia in qualsivoglia modo dannoso per la salute, o che il cibo prodotto con metodi organici abbia proprietà nutrizionali più elevate. E' cosa nota, ma repetita juvant.
Terzo. Il commercio equo e solidale, in sostanza, prevede per i produttori un premio per il loro prodotto, sotto forma di un prezzo più elevato rispetto a quello di mercato, ritenuto troppo basso. Il problema è che se il prezzo di un bene (ad esempio del caffè) è basso, è perché vi è una sovrapproduzione di quel prodotto, o quantomeno di una data qualità di esso. Efficienza vorrebbe che il coltivatore cambiasse coltivazione e si dedicasse a qualcosa di più remunerativo, o che si dedicasse a un miglioramento della qualità e delle varietà delle sue coltivazioni. Ma l'extra-prezzo pagato da chi acquista i prodotti equi e solidali rappresenta un incentivo ad andare avanti nell'errore. I prezzi così restano bassi, e chi ci rimette sono soprattutto i coltivatori estranei al giro del commercio equo e solidale, che vedono i prezzi dei loro prodotti schiacciati ulteriormente dalla sovrapproduzione finanziata con i soldi del consumatore occidentale convinto di migliorare le sorti del sud del mondo.
Quarto. Argomento che anche uno di sinistra dovrebbe essere in grado di apprezzare al volo: solo il 10% dell'extra-prezzo pagato dal consumatore per il cibo equo e solidale arriva al coltivatore. Il resto finisce quasi tutto nelle tasche del venditore al dettaglio, convinto - a buona ragione - che di solito il consumatore interessato ad acquistare questi prodotti abbia una elasticità rispetto al prezzo piuttosto bassa. Cioè che sia disposto comunque a pagare un bel sovrapprezzo per mettere in dispensa un prodotto il cui appeal principale è ideologico, non alimentare o economico.
Quinto. L'ultima smania del cibo "ecologicamente sostenibile" è il cibo locale, cioè prodotto, commercializzato e acquistato a due passi dalla casa del consumatore. Ovviamente è l'ennesima riproposizione, in salsa ecologista, delle vecchie tesi protezioniste. Le motivazioni ecologiche risiedono nel tentativo di minimizzare l'energia usata per portare il cibo sulla tavola del consumatore finale. Ma se l'obiettivo è usare meno energia possibile, il modo più efficiente consiste nel commercializzarlo nei grandi supermercati e ipermercati, assai più vicini alla case dei consumatori di quanto non lo siano le aziende agricole che producono gli stessi prodotti. E sono proprio le automobili dei consumatori finali quelle che rendono elevato il consumo di energia. Il ragionamento è intuitivo: è più efficiente far trasportare una tonnellata di cibo da un solo grande veicolo che far trasportare mille chili di esso in altrettante automobili. Domanda: c'è qualcuno a sinistra disposto ad ammettere che la grande distribuzione è il metodo di vendita più ecologico, e quindi migliore per il pianeta? Non solo. Se si mette nel conto anche l'energia usata nel processo produttivo in sé, cioè prima del trasporto del cibo, saltano fuori sorprese interessanti. Ad esempio che sarebbe più ecologico che la Gran Bretagna acquistasse ovini e latticini in Nuova Zelanda piuttosto che produrli sul proprio territorio: l'energia usata per l'allevamento degli animali in Inghilterra, infatti, è talmente tanta che - da un punto di vista di consumo di energia e di emissione di gas serra, per chi crede che esista davvero una cosa chiamata "effetto serra" - il trasporto da posti in cui tale consumo è minimo, anche se lontanissimi, è una soluzione più conveniente.
Così, appena si abbandona l'ebbrezza dei facili luoghi comuni ecologisti e terzomondisti, e si vanno a fare due conti in modo intelligente, si scopre che la divisione del lavoro magnificata da Adam Smith e la globalizzazione garantiscono efficienza non solo da un punto di vista economico, ma anche da quello ambientale. Niente di cui essere stupiti. Almeno da queste parti.