Ma il peggio per Prodi deve ancora venire
di Fausto Carioti
Romano Prodi gongola e ostenta sicurezza. Dice che il voto di fiducia ottenuto ieri sera al Senato (162 voti a favore, 157 contrari) è una vittoria importante, che quello che ha appena superato era lo scoglio più difficile e che da adesso in poi il percorso del suo governo sarà tutto in discesa. Fa bene a dirlo. È dovere di un premier mostrarsi fiducioso davanti agli elettori anche quando tutto intorno a lui sembra sul punto di crollare. L’importante è che certe cose si limiti a dirle, senza crederci sul serio. Altrimenti dimostrerebbe di essere assai meno sveglio di come lo dipingono in privato quelli che ne parlano peggio, cioè i dirigenti diessini suoi alleati. La verità è che Prodi ieri è uscito con le ossa rotte dal confronto con il Senato. Da maggio a oggi il margine di fiducia di cui dispone il suo governo a palazzo Madama si è dimezzato: allora fu promosso con dieci voti di scarto, adesso può contare su appena cinque voti di differenza. E sono i voti di cinque senatori che nessun elettore ha votato.
Da ieri è ufficiale che il governo Prodi non ha più una sua maggioranza politica. È vivo solo perché in Italia esiste la curiosa istituzione dei senatori a vita, e perché cinque di questi signori - tutti animati da nobilissimi e intenti e nel pieno svolgimento delle loro prerogative, inutile ricordarlo - pur non essendo stati eletti da alcun suffragio popolare, hanno deciso di votare la fiducia a Prodi, ribaltando quello che sarebbe stato il verdetto degli eletti dalle urne. Senza il voto di Carlo Azeglio Ciampi, Francesco Cossiga, Emilio Colombo, Rita Levi Montalcini e Oscar Luigi Scalfaro, la votazione sarebbe finita con 157 “sì” e 157 “no”, e quindi Prodi non avrebbe avuto la maggioranza né la fiducia e ora staremmo qui a scriverne il necrologio. Invece tocca limitarsi a raccontarne l’accanimento terapeutico, che con ogni probabilità durerà finché qualcuno dei leader dei Ds non deciderà di staccare la spina a Prodi per impedire che produca ulteriori danni al centrosinistra. Gli stessi ottuagenari, del resto, iniziano a mostrare segni di cedimento: ieri Giulio Andreotti, pur presente, non ha votato, e Sergio Pininfarina ha preferito marinare la seduta. Persino Ciampi ha sbottato, esprimendo il proprio «disappunto» per un modo di legiferare (un articolo di legge con 1.365 commi) che definisce «improvvido».
È la prima volta che accade qualcosa di simile: mai, prima di ieri, un governo si era retto grazie alla stampella decisiva dei senatori a vita. Anna Finocchiaro, capogruppo dell’Ulivo, ripete che i senatori a vita furono decisivi anche per dare la fiducia all’esecutivo guidato da Berlusconi nel 1994. Non è vero. Il 18 maggio del ’94 il governo del Polo ottenne la fiducia con sei voti di scarto. Degli undici senatori a vita dell’epoca, tre votarono a favore della fiducia, tre votarono contro, due si astennero (e l’astensione al Senato conta come un voto contrario) e tre erano assenti. Il ruolo dei senatori a vita, allora come oggi, fu complessivamente favorevole al centrosinistra.
La debolezza di Prodi è stata ben compresa dai suoi alleati. I quali, ritenendosi - a buon diritto - decisivi per la sua sopravvivenza politica, hanno iniziato a minacciarlo. Lui è costretto a obbedire, rimediando figure umilianti come quella che gli ha fatto incassare ieri Antonio Di Pietro. Ancora prima del voto, scoperto che il testo su cui il governo metteva la fiducia conteneva una sanatoria per i reati contabili, l’ex pm ha minacciato Prodi di lasciare la maggioranza se il presidente del Consiglio non avesse «chiarito» subito. Prodi è scattato sull’attenti e ha promesso una correzione rapidissima tramite apposito decreto.
Nelle stesse ore partiva un altro ultimatum da Rifondazione Comunista e Verdi: nel maxiemendamento, la normativa sugli incentivi di Stato alle fonti energetiche rinnovabili (che in gergo da iniziati si chiama “Cip 6”) non era quella che i due partiti si aspettavano. Anche loro, giù col ricatto: sin quando la norma non sarà riscritta, non parteciperanno ai lavori d’aula del Senato, dove ovviamente la loro presenza è decisiva in ogni votazione. Chiamato in causa, Prodi fa sapere che si occuperà presto anche di questa rogna. Il tempo di segnare la cosa sull’agenda e arriva il diktat dell’Udeur di Clemente Mastella, da dove gli fanno sapere che il taglio ai fondi dell’Università previsto dalla Finanziaria è «inaccettabile». E a gennaio dovrà partire la fase delle riforme, che i Ds adesso pretendono per tirare su il profilo di un governo e di una coalizione che viaggiano rasoterra in tutti i sondaggi, ma delle quali comunisti italiani e rifondaroli - cioè i veri alleati di Prodi - non vogliono sentire parlare. Il peggio, per il già decotto presidente del consiglio, deve ancora venire.
© Libero. Pubblicato il 16 dicembre 2006.
Romano Prodi gongola e ostenta sicurezza. Dice che il voto di fiducia ottenuto ieri sera al Senato (162 voti a favore, 157 contrari) è una vittoria importante, che quello che ha appena superato era lo scoglio più difficile e che da adesso in poi il percorso del suo governo sarà tutto in discesa. Fa bene a dirlo. È dovere di un premier mostrarsi fiducioso davanti agli elettori anche quando tutto intorno a lui sembra sul punto di crollare. L’importante è che certe cose si limiti a dirle, senza crederci sul serio. Altrimenti dimostrerebbe di essere assai meno sveglio di come lo dipingono in privato quelli che ne parlano peggio, cioè i dirigenti diessini suoi alleati. La verità è che Prodi ieri è uscito con le ossa rotte dal confronto con il Senato. Da maggio a oggi il margine di fiducia di cui dispone il suo governo a palazzo Madama si è dimezzato: allora fu promosso con dieci voti di scarto, adesso può contare su appena cinque voti di differenza. E sono i voti di cinque senatori che nessun elettore ha votato.
Da ieri è ufficiale che il governo Prodi non ha più una sua maggioranza politica. È vivo solo perché in Italia esiste la curiosa istituzione dei senatori a vita, e perché cinque di questi signori - tutti animati da nobilissimi e intenti e nel pieno svolgimento delle loro prerogative, inutile ricordarlo - pur non essendo stati eletti da alcun suffragio popolare, hanno deciso di votare la fiducia a Prodi, ribaltando quello che sarebbe stato il verdetto degli eletti dalle urne. Senza il voto di Carlo Azeglio Ciampi, Francesco Cossiga, Emilio Colombo, Rita Levi Montalcini e Oscar Luigi Scalfaro, la votazione sarebbe finita con 157 “sì” e 157 “no”, e quindi Prodi non avrebbe avuto la maggioranza né la fiducia e ora staremmo qui a scriverne il necrologio. Invece tocca limitarsi a raccontarne l’accanimento terapeutico, che con ogni probabilità durerà finché qualcuno dei leader dei Ds non deciderà di staccare la spina a Prodi per impedire che produca ulteriori danni al centrosinistra. Gli stessi ottuagenari, del resto, iniziano a mostrare segni di cedimento: ieri Giulio Andreotti, pur presente, non ha votato, e Sergio Pininfarina ha preferito marinare la seduta. Persino Ciampi ha sbottato, esprimendo il proprio «disappunto» per un modo di legiferare (un articolo di legge con 1.365 commi) che definisce «improvvido».
È la prima volta che accade qualcosa di simile: mai, prima di ieri, un governo si era retto grazie alla stampella decisiva dei senatori a vita. Anna Finocchiaro, capogruppo dell’Ulivo, ripete che i senatori a vita furono decisivi anche per dare la fiducia all’esecutivo guidato da Berlusconi nel 1994. Non è vero. Il 18 maggio del ’94 il governo del Polo ottenne la fiducia con sei voti di scarto. Degli undici senatori a vita dell’epoca, tre votarono a favore della fiducia, tre votarono contro, due si astennero (e l’astensione al Senato conta come un voto contrario) e tre erano assenti. Il ruolo dei senatori a vita, allora come oggi, fu complessivamente favorevole al centrosinistra.
La debolezza di Prodi è stata ben compresa dai suoi alleati. I quali, ritenendosi - a buon diritto - decisivi per la sua sopravvivenza politica, hanno iniziato a minacciarlo. Lui è costretto a obbedire, rimediando figure umilianti come quella che gli ha fatto incassare ieri Antonio Di Pietro. Ancora prima del voto, scoperto che il testo su cui il governo metteva la fiducia conteneva una sanatoria per i reati contabili, l’ex pm ha minacciato Prodi di lasciare la maggioranza se il presidente del Consiglio non avesse «chiarito» subito. Prodi è scattato sull’attenti e ha promesso una correzione rapidissima tramite apposito decreto.
Nelle stesse ore partiva un altro ultimatum da Rifondazione Comunista e Verdi: nel maxiemendamento, la normativa sugli incentivi di Stato alle fonti energetiche rinnovabili (che in gergo da iniziati si chiama “Cip 6”) non era quella che i due partiti si aspettavano. Anche loro, giù col ricatto: sin quando la norma non sarà riscritta, non parteciperanno ai lavori d’aula del Senato, dove ovviamente la loro presenza è decisiva in ogni votazione. Chiamato in causa, Prodi fa sapere che si occuperà presto anche di questa rogna. Il tempo di segnare la cosa sull’agenda e arriva il diktat dell’Udeur di Clemente Mastella, da dove gli fanno sapere che il taglio ai fondi dell’Università previsto dalla Finanziaria è «inaccettabile». E a gennaio dovrà partire la fase delle riforme, che i Ds adesso pretendono per tirare su il profilo di un governo e di una coalizione che viaggiano rasoterra in tutti i sondaggi, ma delle quali comunisti italiani e rifondaroli - cioè i veri alleati di Prodi - non vogliono sentire parlare. Il peggio, per il già decotto presidente del consiglio, deve ancora venire.
© Libero. Pubblicato il 16 dicembre 2006.