L'Italia, la Russia e il Venezuela: la fiera delle cavolate
di Fausto Carioti
In principio - qualcuno ricorderà - era il Cile. Due legislature fa, quinquennio berlusconiano 2001-2006: bastava che un no-global impegnato a caricare la polizia prendesse un sacrosanto manganello in faccia per dire che il governo era cileno, gli uomini in divisa erano cileni e Silvio Berlusconi era un po’ più cattivo di Augusto Pinochet. Certo, continuavano a esserci libere elezioni, i giornali d’opposizione erano in edicola tutti i giorni e gli avversari del governo non volavano giù dagli aerei. Ma erano dettagli secondari. È finita come sappiamo: dopo la breve parentesi prodiana il crudele dittatore è stato riportato a furor di popolo a palazzo Chigi. Ora ci riprovano. Capito che il Cile non funziona (e grazie: prendete un under 30, chiedetegli chi era Salvador Allende e sentite cosa vi risponde), hanno ripiegato su paragoni un po’ più alla mano. Adesso l’Italia è come la Russia di Vladimir Putin e il Venezuela di Hugo Chávez.
Delle due l’una: o quelli di sinistra hanno un’unica mente collettiva, tipo le creature aliene di certi b-movies, oppure seguono come un gregge il primo che si muove. Di sicuro, hanno iniziato tutti insieme a dire la stessa cosa. Arriva l’esercito nelle strade? Non importa se la sicurezza aumenta e in certi quartieri i soldati sono accolti da liberatori. Importa solo scrivere, come fa l’Unità, che stiamo diventando «un Venezuela qualunque», costretto a «sopportare l’esercito nelle città». Giovanni Sartori, antiberlusconiano doc, evoca invece il cupo scenario moscovita, dove «un uomo solo si è impadronito di tutto il potere e di tutti i contropoteri previsti per contrastarlo. Potrebbe succedere anche in Italia, no?». Walter Veltroni si adegua: «Rischiamo di veder realizzarsi anche in Italia il modello Putin». Tira le somme Famiglia Cristiana: in Italia c’è «un processo degenerativo che svuota il parlamento sulla scia della Russia di Putin o del Venezuela di Chávez». A dir la verità, quello che avviene oggi in Parlamento è stato fatto anche da Romano Prodi e dai presidenti del consiglio che l’hanno preceduto negli ultimi decenni, i quali hanno lasciato alle Camere le briciole dell’attività legislativa, sommergendole di decreti legge e votazioni di fiducia. Insomma, l’accusa proprio non sta in piedi. Ma la frase di Famiglia Cristiana è troppo ghiotta per non essere copiata e incollata ovunque. Così a sinistra il settimanale dei Paolini smette di essere «Fanghiglia Cristiana» e diventa la voce coraggiosa della parte migliore della società. Alberto Asor Rosa preferisce invece i vecchi cliché, e col senso della misura che lo distingue scrive sul Manifesto che il berlusconismo «è peggio del fascismo». Ovviamente nel ventennio giornali come quello su cui appare il suo articolo non avevano diritto di esistere, ma l’importante è lo slogan facile, la frase per i gonzi: Berlusconi è peggio di Mussolini, di Putin e di Chávez. Sono stati fregati sul tempo: se Gianfranco Fini non avesse già usato l’espressione «male assoluto» nei confronti del fascismo, l’avrebbero adottata loro per dipingere il presidente del Consiglio.
Il risultato di questa colossale fiera delle cavolate è che fa finire tutto in vacca, iniziando dal ruolo dell’opposizione. Anche le critiche sensate sono sepolte dai paragoni più improbabili, dalla sparata più ridicola. Perché in Russia e in Venezuela chi scrive certe cose non va in diretta televisiva da Michele Santoro, ma in carcere o al cimitero. Due anni fa a Mosca fu uccisa Anna Politkovskaja, giornalista e avversaria di Putin. Non è la sola: dal 2000 a oggi i radicali hanno contato in Russia 103 giornalisti eliminati in modo più o meno misterioso. Nel suo rapporto annuale sul paese, Amnesty International scrive che «la polizia ha arrestato manifestanti, giornalisti e attivisti dei diritti umani, alcuni dei quali sono stati picchiati».
Dalle parti del compagno Chávez è stato appena ammazzato un leader dell’opposizione studentesca: un ragazzo di 32 anni che si chiamava Julio Soto. È stato crivellato di colpi da due sicari. Le cronache dicono che è il terzo avversario del governo ucciso nel giro di un anno: nei mesi scorsi era toccato al giornalista Javier García e al vicepresidente di un giornale d’opposizione, Pierre Fould Gerges. Qualche centinaio di nemici di Chávez si trova in carcere, mentre gli oppositori che lavorano nelle aziende di Stato sono licenziati. L’organizzazione Humans Rights Watch, che Chávez nei giorni scorsi ha cacciato dal paese, ha scritto che il suo governo «ha minato la libertà d’espressione dei giornalisti, la libertà d’associazione dei lavoratori e la capacità della società civile di promuovere i diritti umani in Venezuela».
Insomma, ogni paragone tra certe situazioni e la realtà italiana è semplicemente grottesco. Ci vorrebbe un po’ di pudore nell’azzardare certi raffronti. Per rispetto dei morti e di chi è finito in carcere, se non altro.
© Libero. Pubblicato il 4 ottobre 2008.
In principio - qualcuno ricorderà - era il Cile. Due legislature fa, quinquennio berlusconiano 2001-2006: bastava che un no-global impegnato a caricare la polizia prendesse un sacrosanto manganello in faccia per dire che il governo era cileno, gli uomini in divisa erano cileni e Silvio Berlusconi era un po’ più cattivo di Augusto Pinochet. Certo, continuavano a esserci libere elezioni, i giornali d’opposizione erano in edicola tutti i giorni e gli avversari del governo non volavano giù dagli aerei. Ma erano dettagli secondari. È finita come sappiamo: dopo la breve parentesi prodiana il crudele dittatore è stato riportato a furor di popolo a palazzo Chigi. Ora ci riprovano. Capito che il Cile non funziona (e grazie: prendete un under 30, chiedetegli chi era Salvador Allende e sentite cosa vi risponde), hanno ripiegato su paragoni un po’ più alla mano. Adesso l’Italia è come la Russia di Vladimir Putin e il Venezuela di Hugo Chávez.
Delle due l’una: o quelli di sinistra hanno un’unica mente collettiva, tipo le creature aliene di certi b-movies, oppure seguono come un gregge il primo che si muove. Di sicuro, hanno iniziato tutti insieme a dire la stessa cosa. Arriva l’esercito nelle strade? Non importa se la sicurezza aumenta e in certi quartieri i soldati sono accolti da liberatori. Importa solo scrivere, come fa l’Unità, che stiamo diventando «un Venezuela qualunque», costretto a «sopportare l’esercito nelle città». Giovanni Sartori, antiberlusconiano doc, evoca invece il cupo scenario moscovita, dove «un uomo solo si è impadronito di tutto il potere e di tutti i contropoteri previsti per contrastarlo. Potrebbe succedere anche in Italia, no?». Walter Veltroni si adegua: «Rischiamo di veder realizzarsi anche in Italia il modello Putin». Tira le somme Famiglia Cristiana: in Italia c’è «un processo degenerativo che svuota il parlamento sulla scia della Russia di Putin o del Venezuela di Chávez». A dir la verità, quello che avviene oggi in Parlamento è stato fatto anche da Romano Prodi e dai presidenti del consiglio che l’hanno preceduto negli ultimi decenni, i quali hanno lasciato alle Camere le briciole dell’attività legislativa, sommergendole di decreti legge e votazioni di fiducia. Insomma, l’accusa proprio non sta in piedi. Ma la frase di Famiglia Cristiana è troppo ghiotta per non essere copiata e incollata ovunque. Così a sinistra il settimanale dei Paolini smette di essere «Fanghiglia Cristiana» e diventa la voce coraggiosa della parte migliore della società. Alberto Asor Rosa preferisce invece i vecchi cliché, e col senso della misura che lo distingue scrive sul Manifesto che il berlusconismo «è peggio del fascismo». Ovviamente nel ventennio giornali come quello su cui appare il suo articolo non avevano diritto di esistere, ma l’importante è lo slogan facile, la frase per i gonzi: Berlusconi è peggio di Mussolini, di Putin e di Chávez. Sono stati fregati sul tempo: se Gianfranco Fini non avesse già usato l’espressione «male assoluto» nei confronti del fascismo, l’avrebbero adottata loro per dipingere il presidente del Consiglio.
Il risultato di questa colossale fiera delle cavolate è che fa finire tutto in vacca, iniziando dal ruolo dell’opposizione. Anche le critiche sensate sono sepolte dai paragoni più improbabili, dalla sparata più ridicola. Perché in Russia e in Venezuela chi scrive certe cose non va in diretta televisiva da Michele Santoro, ma in carcere o al cimitero. Due anni fa a Mosca fu uccisa Anna Politkovskaja, giornalista e avversaria di Putin. Non è la sola: dal 2000 a oggi i radicali hanno contato in Russia 103 giornalisti eliminati in modo più o meno misterioso. Nel suo rapporto annuale sul paese, Amnesty International scrive che «la polizia ha arrestato manifestanti, giornalisti e attivisti dei diritti umani, alcuni dei quali sono stati picchiati».
Dalle parti del compagno Chávez è stato appena ammazzato un leader dell’opposizione studentesca: un ragazzo di 32 anni che si chiamava Julio Soto. È stato crivellato di colpi da due sicari. Le cronache dicono che è il terzo avversario del governo ucciso nel giro di un anno: nei mesi scorsi era toccato al giornalista Javier García e al vicepresidente di un giornale d’opposizione, Pierre Fould Gerges. Qualche centinaio di nemici di Chávez si trova in carcere, mentre gli oppositori che lavorano nelle aziende di Stato sono licenziati. L’organizzazione Humans Rights Watch, che Chávez nei giorni scorsi ha cacciato dal paese, ha scritto che il suo governo «ha minato la libertà d’espressione dei giornalisti, la libertà d’associazione dei lavoratori e la capacità della società civile di promuovere i diritti umani in Venezuela».
Insomma, ogni paragone tra certe situazioni e la realtà italiana è semplicemente grottesco. Ci vorrebbe un po’ di pudore nell’azzardare certi raffronti. Per rispetto dei morti e di chi è finito in carcere, se non altro.
© Libero. Pubblicato il 4 ottobre 2008.