Il problema dei decreti c'è sempre stato e la sinistra ha fatto ben di peggio
di Fausto Carioti
Difficile prendere sul serio Walter Veltroni che si atteggia a leader dell’opposizione di un Paese a democrazia limitata. Il segretario del Pd grida al golpe strisciante perché il governo lascia al parlamento solo le briciole dell’attività legislativa. In un’intervista all’Espresso, si spinge a negare a Silvio Berlusconi il diritto di farsi eleggere al Quirinale come ogni altro cittadino. Ma uno come lui, quando lancia simili allarmi non può essere credibile. Per almeno due motivi.
Primo: quello che sta facendo il governo attuale sul piano legislativo lo hanno fatto tutti i governi degli ultimi decenni. Durante la scorsa legislatura, nei primi 365 giorni del governo Prodi, furono approvate in Parlamento solo 36 leggi: ben 22 di queste, cioè il 61%, erano conversioni di decreti legge fatti dal governo. Tanto che Gennaro Migliore, capogruppo rifondarolo alla Camera, a un anno dall’insediamento del governo lamentava «il ricorso esagerato alla decretazione d’urgenza». Lo stesso Giorgio Napolitano, in quei giorni, dovette intervenire (non era la prima volta) per chiedere «il rispetto dei limiti posti dall’articolo 77 della Costituzione», ovvero di quelle caratteristiche di straordinaria «necessità e urgenza» che i decreti legge in teoria dovrebbero avere sempre, ma che molto spesso non possiedono, poiché servono solo a legare le mani al Parlamento.
A dirla tutta, la scorsa legislatura si fece di molto peggio. Siccome ogni volta che a palazzo Madama si andava alla conta Romano Prodi rischiava di tornare a Bologna da disoccupato, si decise che il Senato doveva riunirsi, e soprattutto votare, il meno possibile. Così le leggi venivano fuori col contagocce. Quel parlamento, guarda caso, segnò il record negativo della produttività sia calcolando le leggi approvate, sia contando le sedute d’aula. E quando proprio non si poteva non votare, il provvedimento su cui l’aula di palazzo Madama era chiamata a decidere veniva blindato mediante la fiducia. Il parlamento, insomma, era davvero svuotato di potere e dignità, ma per Veltroni era tutto normale. Il secondo motivo per cui il segretario del Pd non è credibile è che il Pdl gli ha messo sul piatto un modo per ridurre i decreti del governo, limitandoli a quei «casi straordinari di necessità e d’urgenza» previsti dalla bibbia costituzionale. È una modifica del regolamento parlamentare, proposta dai senatori Maurizio Gasparri e Gaetano Quagliariello. In sostanza, «la quota prevalente del tempo di lavoro» dell’assemblea sarebbe dedicata ai «disegni di legge segnalati dal governo, mantenendo una quota residuale a disposizione dell’opposizione»; i disegni di legge che costituiscono attuazione del programma di governo dovrebbero essere approvati o respinti entro sessanta giorni; per questi provvedimenti e quelli di natura finanziaria il governo sarebbe libero di chiedere il “voto bloccato”, rendendo così impossibile ogni emendamento.
In cambio, sarebbe istituzionalizzata la figura del capo dell’opposizione, che avrebbe poteri di controllo nei confronti del premier e potrebbe chiedere la diretta televisiva per una seduta parlamentare al mese; i “ministri ombra” avrebbero una posizione privilegiata nei lavori parlamentari; l’intera opposizione avrebbe maggiori risorse umane e finanziarie e più poteri di ispezione e controllo. Questa proposta di modifica dei regolamenti è frutto dell’incontro che Berlusconi e Veltroni ebbero prima che iniziasse la campagna elettorale e dei tanti colloqui che ne seguirono tra il costituzionalista di Veltroni, Salvatore Vassallo, e il plenipotenziario di Berlusconi, Quagliariello. Eppure, sino a oggi, dal Pd hanno respinto l’offerta di cambiare i regolamenti parlamentari.
La verità è che solo così Veltroni può ritorcere contro Berlusconi il suo decisionismo (la caratteristica che gli italiani più stanno apprezzando), presentarlo come una minaccia alla istituzioni e sostenere che uno come lui non potrà fare il presidente della Repubblica perché al Quirinale servono «figure che garantiscano la Costituzione». L’esatto contrario di quanto detto da Massimo D’Alema, il quale - bontà sua - aveva fatto sapere che «Berlusconi può candidarsi al Quirinale come chiunque». Ma Veltroni ha tutto l’interesse a mantenere alta la tensione. Almeno sino al 25 ottobre, quando è prevista la manifestazione di protesta del Pd contro il governo. Per portare in piazza quanta più gente possibile, dovrà mostrarsi intransigente su tutto e, almeno fino a quel momento, farà a gara con Antonio Di Pietro a chi la spara più grossa.
Intanto, eserciterà tutta la pressione possibile sul presidente della Repubblica e sui presidenti dei due rami del parlamento. Farà appello al loro orgoglio e alla costituzione per condizionare il loro comportamento e volgerlo contro Berlusconi. Veltroni può già sventolare l’impegno assunto ieri da Gianfranco Fini, terza carica dello Stato, di «far sentire la voce della Camera» se il governo farà un «abuso» di decreti legge. Ma al momento né lui né Napolitano, e tantomeno il forzista Renato Schifani, presidente del Senato, sentono la necessità di intervenire. Qualunque cosa possano pensare di Berlusconi, prima di prestarsi a un gioco così sfacciato come quello di Veltroni ci penseranno due volte.
© Libero. Pubblicato il 3 ottobre 2008.
Difficile prendere sul serio Walter Veltroni che si atteggia a leader dell’opposizione di un Paese a democrazia limitata. Il segretario del Pd grida al golpe strisciante perché il governo lascia al parlamento solo le briciole dell’attività legislativa. In un’intervista all’Espresso, si spinge a negare a Silvio Berlusconi il diritto di farsi eleggere al Quirinale come ogni altro cittadino. Ma uno come lui, quando lancia simili allarmi non può essere credibile. Per almeno due motivi.
Primo: quello che sta facendo il governo attuale sul piano legislativo lo hanno fatto tutti i governi degli ultimi decenni. Durante la scorsa legislatura, nei primi 365 giorni del governo Prodi, furono approvate in Parlamento solo 36 leggi: ben 22 di queste, cioè il 61%, erano conversioni di decreti legge fatti dal governo. Tanto che Gennaro Migliore, capogruppo rifondarolo alla Camera, a un anno dall’insediamento del governo lamentava «il ricorso esagerato alla decretazione d’urgenza». Lo stesso Giorgio Napolitano, in quei giorni, dovette intervenire (non era la prima volta) per chiedere «il rispetto dei limiti posti dall’articolo 77 della Costituzione», ovvero di quelle caratteristiche di straordinaria «necessità e urgenza» che i decreti legge in teoria dovrebbero avere sempre, ma che molto spesso non possiedono, poiché servono solo a legare le mani al Parlamento.
A dirla tutta, la scorsa legislatura si fece di molto peggio. Siccome ogni volta che a palazzo Madama si andava alla conta Romano Prodi rischiava di tornare a Bologna da disoccupato, si decise che il Senato doveva riunirsi, e soprattutto votare, il meno possibile. Così le leggi venivano fuori col contagocce. Quel parlamento, guarda caso, segnò il record negativo della produttività sia calcolando le leggi approvate, sia contando le sedute d’aula. E quando proprio non si poteva non votare, il provvedimento su cui l’aula di palazzo Madama era chiamata a decidere veniva blindato mediante la fiducia. Il parlamento, insomma, era davvero svuotato di potere e dignità, ma per Veltroni era tutto normale. Il secondo motivo per cui il segretario del Pd non è credibile è che il Pdl gli ha messo sul piatto un modo per ridurre i decreti del governo, limitandoli a quei «casi straordinari di necessità e d’urgenza» previsti dalla bibbia costituzionale. È una modifica del regolamento parlamentare, proposta dai senatori Maurizio Gasparri e Gaetano Quagliariello. In sostanza, «la quota prevalente del tempo di lavoro» dell’assemblea sarebbe dedicata ai «disegni di legge segnalati dal governo, mantenendo una quota residuale a disposizione dell’opposizione»; i disegni di legge che costituiscono attuazione del programma di governo dovrebbero essere approvati o respinti entro sessanta giorni; per questi provvedimenti e quelli di natura finanziaria il governo sarebbe libero di chiedere il “voto bloccato”, rendendo così impossibile ogni emendamento.
In cambio, sarebbe istituzionalizzata la figura del capo dell’opposizione, che avrebbe poteri di controllo nei confronti del premier e potrebbe chiedere la diretta televisiva per una seduta parlamentare al mese; i “ministri ombra” avrebbero una posizione privilegiata nei lavori parlamentari; l’intera opposizione avrebbe maggiori risorse umane e finanziarie e più poteri di ispezione e controllo. Questa proposta di modifica dei regolamenti è frutto dell’incontro che Berlusconi e Veltroni ebbero prima che iniziasse la campagna elettorale e dei tanti colloqui che ne seguirono tra il costituzionalista di Veltroni, Salvatore Vassallo, e il plenipotenziario di Berlusconi, Quagliariello. Eppure, sino a oggi, dal Pd hanno respinto l’offerta di cambiare i regolamenti parlamentari.
La verità è che solo così Veltroni può ritorcere contro Berlusconi il suo decisionismo (la caratteristica che gli italiani più stanno apprezzando), presentarlo come una minaccia alla istituzioni e sostenere che uno come lui non potrà fare il presidente della Repubblica perché al Quirinale servono «figure che garantiscano la Costituzione». L’esatto contrario di quanto detto da Massimo D’Alema, il quale - bontà sua - aveva fatto sapere che «Berlusconi può candidarsi al Quirinale come chiunque». Ma Veltroni ha tutto l’interesse a mantenere alta la tensione. Almeno sino al 25 ottobre, quando è prevista la manifestazione di protesta del Pd contro il governo. Per portare in piazza quanta più gente possibile, dovrà mostrarsi intransigente su tutto e, almeno fino a quel momento, farà a gara con Antonio Di Pietro a chi la spara più grossa.
Intanto, eserciterà tutta la pressione possibile sul presidente della Repubblica e sui presidenti dei due rami del parlamento. Farà appello al loro orgoglio e alla costituzione per condizionare il loro comportamento e volgerlo contro Berlusconi. Veltroni può già sventolare l’impegno assunto ieri da Gianfranco Fini, terza carica dello Stato, di «far sentire la voce della Camera» se il governo farà un «abuso» di decreti legge. Ma al momento né lui né Napolitano, e tantomeno il forzista Renato Schifani, presidente del Senato, sentono la necessità di intervenire. Qualunque cosa possano pensare di Berlusconi, prima di prestarsi a un gioco così sfacciato come quello di Veltroni ci penseranno due volte.
© Libero. Pubblicato il 3 ottobre 2008.