La strategia del gufo

di Fausto Carioti

Se dopo il terzo cuoco in un anno ancora non si capisce se il Pd sia un piatto vegetariano o una bistecca, nouvelle cuisine o pietanza da osteria, forse il problema non è nel nome di chi sta ai fornelli, si chiami Walter Veltroni, Dario Franceschini o - da ieri - Pier Luigi Bersani. Forse il problema è l’idea in sé: il Pd non si sapeva cosa fosse quando è stato fatto e continua ad essere oggetto incomprensibile ancora oggi. A questa conclusione deve essere arrivato anche Bersani, se è vero che ha deciso di rimodellare il Pd facendone l’ennesima incarnazione del Pds. La sua ammissione secondo cui l’addio di Francesco Rutelli non lascia «fronti scoperti» fa capire che i cattolici, nel progetto del nuovo segretario, hanno una funzione poco più che decorativa. Per quelli che, a differenza di Rosy Bindi, rivendicano autonomia di pensiero rispetto agli ex di Botteghe Oscure, la porta è lì: liberi di accomodarsi fuori.

Basta questo salto all’indietro a dare senso al partito? Purtroppo per Bersani - e per fortuna del PdL, che così continuerà a campare di rendita sulle disgrazie altrui - no. Sia perché i tempi sono cambiati, sia perché la forza politica del Pci, ma anche quella di un grande partito riformista di centro-sinistra, il Pd se la sogna. E ieri lo si è capito benissimo, da quello che Bersani ha detto e dai suoi silenzi.
Dire che la giustizia italiana è lenta e va riformata, come ha fatto lui, è una ovvietà: i tre milioni di procedimenti penali e i cinque milioni di cause civili pendenti parlano da soli. Ma parte delle responsabilità di questo sfascio, secondo Bersani, può essere addebitata alla magistratura oppure no? È lecito parlare di separazione delle carriere e riforma del Csm oppure si tratta di «norme punitive», come sostiene il sindacato unico dei magistrati? In altre parole: il Pd di Bersani è forte abbastanza da liberarsi dell’ipoteca delle toghe? Quanta paura ha di scoprirsi sul fianco giustizialista, lasciando spazio all’Italia dei Valori? Il poco che si è capito dal “discorso programmatico” di ieri autorizza a credere che la forza sia poca e la paura tanta.

Nebbia fitta anche sul capitolo welfare, con il neo-segretario in bilico tra ricette interventiste e (rare) suggestioni liberiste. Bersani ieri ha detto che c’è «la necessità di uno sguardo di prospettiva sull’impianto del sistema pensionistico alla luce dei suoi effetti sulle nuove generazioni». Allude a una riforma delle pensioni? Parrebbe, ma allora perché non lo dice in italiano? Anche lui, come i suoi predecessori, ha paura del sindacato? Quando annuncia di voler trovare un posto fisso ai precari, intende cestinare pure l’odiato ma necessario pacchetto Treu, che nel 1997 - con Romano Prodi premier e un certo Bersani ministro dell’Industria - introdusse il lavoro interinale in Italia? E visto che, come avverte lui stesso, «molte piccole e medie aziende non hanno fiato sufficiente per una crisi lunga», che ne sarebbe di queste se non potessero più dosare la forza lavoro a seconda dell’andamento del mercato?

Poche idee ma confuse pure sul fronte internazionale. Il Bersani politicamente corretto ieri ha detto che chi parlava di «scontro delle civiltà» è stato smentito dai fatti. Subito dopo, però, il Bersani realista ha aggiunto che negli ultimi anni sono apparse «nuove fratture, come quella intervenuta tra occidente e mondo islamico»: proprio quello che sostengono Samuel Huntington e gli altri teorici del «clash of civilizations». Il povero iscritto al Pd è autorizzato a non capirci nulla.

Alla fine, l’unica cosa sicura è che Bersani, forse perché consapevole della debolezza del suo partito, conta sulla crisi economica per mettere alle corde Berlusconi: «La crisi non è psicologica, non è una nuvola passeggera, non l’abbiamo alle spalle. Pretendiamo che il governo si rivolga al Parlamento e al paese con un’analisi realistica». Ma “gufare” rischia di essere una strada che porta poco lontano. Anche perché l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico ha appena certificato che l’Italia è il Paese industrializzato che si sta riprendendo meglio dalla crisi. Dati di dominio pubblico, usciti due giorni fa, ma che il nuovo leader del Pd ha fatto finta di non vedere.

Certo, pesa anche lo spessore politico di Bersani. Che è quello di un apparatnik diligente, un bravo amministratore locale, che però un paio di lustri fa non sarebbe mai potuto arrivare alla guida del primo partito di sinistra. Colpa del serial killer Silvio Berlusconi, che uno dopo l’altro ha fatto fuori tutti quelli che in graduatoria stavano davanti al suo nuovo avversario. Adesso in prima fila c’è Bersani, e dovrà stare attento a non fare la stessa fine di chi lo ha preceduto. Le elezioni regionali sono dietro l’angolo.

© Libero. Pubblicato l'8 novembre 2009.

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