La Roma alta e la Roma bassa

di Fausto Carioti

Non conosci Roma, e non puoi capire vicende come quella di Brenda, di Piero Marrazzo e di tutto quel mondo ricco e potente che è passato nei seminterrati bui di via Gradoli, se non sei mai stato sulla spiaggia di Capocotta. Qui nei mesi estivi, nude o quasi, signore della Roma bene prendono il sole leggendo gli ultimi titoli del catalogo Adelphi. Ogni tanto, qualcuna si alza pigra dal lettino e va a farsi un giro tra le dune dietro la spiaggia. Dove trova ad attenderla i figli del popolo, e tutti insieme mettono in scena l’unione dell’alto con il basso, meglio ancora se con l’infimo. A rispettosa distanza, Rolex al polso, tradizione vuole che il marito cornuto si goda la scena. La fusione tra l’oro patrizio e il sangue della plebe è il rituale più antico della capitale, che all’oro e al sangue deve i suoi colori. «Senato e popolo romano» erano le due gambe dell’urbe quando stava al centro del mondo. Lo sono ancora adesso che Roma non conta più nulla e che di oro ce n’è poco. Il sangue plebeo, in compenso, continua a scorrere abbondante. E quello di Brenda non sarà certo l’ultimo.

È sulla spiaggia di Capocotta, a pochi metri dalla tenuta presidenziale di Castel Porziano, che all’età di appena sette anni la Repubblica italiana perde la sua innocenza. È la mattina dell’11 aprile del 1953. Un giovane manovale scopre sul bagnasciuga il corpo della ventunenne Wilma Montesi, scomparsa di casa due giorni prima. Indossa sottoveste e mutandine, qualcuno le ha tolto il reggicalze. Bella, con un fisico da maggiorata come si addice all’epoca. L’autopsia dirà che è morta vergine.

Non si saprà mai come è andata davvero. Le indagini però si concentreranno su quello che avveniva nella tenuta di Capocotta del marchese Ugo Montagna. Qui uomini politici di alto livello, rampolli illustri, nobili di casa in Vaticano, ufficiali di polizia e altri servitori dello Stato si sarebbero intrattenuti assieme a ragazze disponibili in festini a base di coca e sesso. Wilma Montesi, figlia di un falegname, poco prima di morire avrebbe partecipato all’ultimo di questi happening riservati alla crema di Roma. Nel tritacarne, accusato di avere ucciso la ragazza, finisce un giovane musicista: Piero Piccioni. Il prezzo lo paga suo padre Attilio, democristiano e vicepresidente del consiglio, candidato a guidare il governo: per lui la carriera è finita, la sua corsa è fermata a un metro dal traguardo. Per il quarantacinquenne Amintore Fanfani la defenestrazione di Piccioni segna invece il momento del decollo. Tanto che tutti lo indicano come il “mazziere”, l’uomo che controlla i dossier dello scandalo politico-sessuale e indirizza le indagini dove vuole. Piero Piccioni poi risulterà innocente, e la storia dei festini nella villa di Montagna sarà ridimensionata dai processi. Ma intanto Fanfani non si ferma più. E l’innocenza di un’intera classe dirigente è perduta per sempre.

Lo capiscono sulla loro pelle i comunisti, che affibbiano il termine di “capocottari” ai rivali democristiani e provano subito a cavalcare la pubblica indignazione. Uno di loro, soprattutto: l’avvocato penalista Giuseppe Sotgiu, esponente del Pci, presidente della provincia di Roma e grande accusatore al processo Montesi. Finché nel novembre del 1954, indagando sulla morte di Maria Teresa Montorzi detta “Pupa”, giovane prostituta morta per droga in circostanze sospette, il quotidiano filo-governativo Momento Sera scopre che Sotgiu e sua moglie sono habitué della casa di tolleranza di via Corridoni, in zona Prati, dove pagano ragazzi di entrambi i sessi per fare giochi erotici. E così si scopre che pure nel Pci di Palmiro Togliatti non si disdegna di sfruttare sessualmente i figli del popolo. Anche per Sotgiu, manco a dirlo, carriera finita.

Certo, a destra accade di peggio: c’è chi le figlie del popolo le ammazza. Come Giampiero Parboni Arquati, Gianni Guido e Angelo Izzo. Confusamente fascisti, impaccati di soldi, nel settembre del 1975 mettono in scena lo stupro di classe, con omicidio finale. “Rimorchiano” due ragazze di periferia, Donatella Colasanti e Rosaria Lopez e, assieme al loro complice Andrea Ghira, le violentano e provano ad ucciderle. Con Rosaria ci riescono. Donatella però sopravvive e racconta all’Italia cosa è accaduto in quella villa del Circeo e cosa passa per la testa della meglio gioventù pariolina.

Ma il massacro del Circeo risponde a un cliché si sarebbe potuto replicare in ogni parte del mondo. Roba vista anche nei romanzi di Bret Easton Ellis. Quello che solo qui può accadere, invece, è che la “Roma bene” che più bene non si può e la Roma criminale, sporca e unta, si guardino da sempre con rispetto, si frequentino e si completino a vicenda. Che poi è uno dei tanti motivi che hanno spinto Pier Paolo Pasolini a interessarsi di questa città e dei suoi angoli più bui. In uno dei quali, sull’idroscalo di Ostia, il regista perderà la vita, ammazzato al termine di una serata e di anni trascorsi a cercare sesso a pagamento con i marchettari di borgata. Lui, il poeta contadino che odiava l’urbanizzazione, l’intellettuale più potente della sinistra, costretto ad amare e inseguire quei ragazzotti che la vita in città e due soldi in tasca avevano reso - parole sue - «sciocchi, presuntuosi, vanitosi, cattivi». Gente come Pino Pelosi, detto “la Rana”, che passò con lui l’ultima notte.

Solo in una città come questa magistrati e poliziotti possono ritenere credibili, e seguire per anni, piste basate su frequentazioni tra i peggiori delinquenti della città, il politico cattolico più potente d’Italia e le somme gerarchie vaticane. L’idea che Giulio Andreotti avesse commissionato a Danilo Abbruciati (il “Nembo Kid” di Romanzo Criminale), Enrico De Pedis (il “Dandi”) e agli altri trucidi della banda della Magliana l’assassinio del giornalista Mino Pecorelli, compiuto nel marzo del 1979, ha retto per un quarto di secolo. Solo nel 2003 Andreotti è stato assolto dalla Cassazione - dopo una condanna in secondo grado a 24 anni - dall’accusa di essere il mandante. Ipotesi che sarebbe stata subito liquidata come fantapolitica ovunque, ma non qui. E solo all’ombra del cupolone possono essere prese sul serio rivelazioni secondo le quali nel 1983 monsignor Paul Casimir Marcinkus - all’epoca presidente dello Ior, la banca del Vaticano - avrebbe fatto rapire Manuela Orlandi usando la solita manovalanza della Magliana.

Perché chi cerca le prove degli intrecci più indecenti e incredibili qui a Roma le trova. Come la tomba di De Pedis collocata all’interno della centralissima basilica di Sant’Apollinare, per imperscrutabile decisione del cardinale Ugo Poletti. Il boss della mafia romana sotto l’immagine della Madonna: migliore metafora dell’eccelso e dell’infimo, che in questa città si toccano da millenni e per l’eternità, non si potrebbe trovare. Per questo il via-vai nel mondo oscuro di via Gradoli da parte della Roma altolocata, che in queste ore si nasconde impaurita, non è nulla di nuovo né può stupire. A Roma si è visto di molto peggio.

© Libero. Pubblicato il 21 novembre 2009.

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