Alla Casa Bianca la sbornia è finita

di Fausto Carioti

Farsi assegnare il Nobel per la Pace dal vetusto comitato norvegese senza aver fatto ancora nulla di pacifista era stato facile. Molto più complicato, per Barack Obama, spingere gli operai della Virginia e i portuali del New Jersey a votare per i “suoi” candidati democratici. E infatti proprio questi due Stati, chiamati alle urne nei giorni scorsi, hanno mandato al presidente americano e al mondo un messaggio molto chiaro: il momento magico di Obama è terminato, ora anche lui è un politico come gli altri, capace di prendere sonore batoste. Spendere il suo nome e la sua faccia non è più sinonimo di vittoria sicura, come hanno scoperto a loro spese i candidati governatori democratici Creigh Deeds e Jon Corzine. Sconfitti malgrado la Virginia, nelle presidenziali dello scorso anno, avesse votato a valanga per Obama, e nonostante il presidente americano avesse fatto campagna elettorale nel New Jersey per Corzine. Tutto inutile.

Un voto locale, insomma, ma dal significato politico evidente: la sbornia è finita, Obama non è più valutato degli elettori sulle promesse e sui suoi sorrisi tutti uguali, ma sulla base di quello che fa. Si è capito che il cambiamento, il «change we need» con cui si era fatto eleggere, se mai avverrà non apparirà d’incanto. Ed è naturale che a essere messa sotto accusa sia innanzitutto la “Obanomics”, la dottrina economica del presidente, che sinora ha prodotto grande aumento nella spesa pubblica con risultati impalpabili su occupazione e crescita.

I segnali d’allarme, per la Casa Bianca, sono tanti. Il primo, appunto, è che - nonostante la sua amministrazione adesso si chiami fuori dalla mischia - il presidente aveva scommesso eccome sulla vittoria dei democratici. Soprattutto nel New Jersey, dove era apparso in tre occasioni - l’ultima domenica scorsa - accanto a Corzine, governatore uscente, che Obama aveva definito un suo «partner» nella speranza di farlo brillare di luce riflessa. «Non perderemo questa elezione se vi impegnerete tutti come faceste lo scorso anno», aveva arringato il presidente. Che aveva anche prestato volto e voce per alcuni spot in favore del candidato. Quanto alla Virginia, il fatto che lo scorso anno Obama fosse stato il primo democratico in 44 anni a vincere da quelle parti dava buoni motivi di speranza. La vittoria del repubblicano Bob McDonnell con il 59% dei voti chiude ogni discorso e fa capire che il voto del 2008 era stato un’eccezione, irripetibile per chissà quanto tempo.

Il secondo problema serio, per Obama e i democratici, sono gli elettori indipendenti. Alle presidenziali di un anno fa si erano schierati per l’uomo dei miracoli. Stavolta molti di loro non sono andati alle urne, e quelli che l’hanno fatto, secondo gli exit poll, hanno scelto in maggioranza i candidati repubblicani. Mentre i giovani hanno disertato: sia in Virginia che in New Jersey gli elettori al di sotto dei 30 anni che si sono presentati ai seggi sono stati la metà rispetto allo scorso anno, quando contribuirono alla vittoria di Obama. Segno che l’elettorato d’opinione condivide sempre meno le scelte del presidente in carica. La sua politica sociale basata sul “big government”, il ritorno allo Stato assistenzialista, potrà piacere a una parte dei democratici e a certe fasce sociali, ma lascia fredda gran parte degli elettori americani. I conservatori lo sanno e hanno calcolato che Obama, in un solo anno, ha approvato interventi di spesa pubblica maggiori di quelli decisi dall’ultimo presidente democratico, Bill Clinton, nei suoi otto anni di permanenza alla Casa Bianca. E se è vero che la politica estera era argomento ben lontano dalle elezioni appena svolte, è vero pure che l’appannamento dell’immagine di Obama è dovuto anche alla sua incapacità di risolvere il conflitto in Afghanistan, sulla cui risoluzione ha puntato molto, e alla mancanza di svolte importanti in tutte le altre zone calde del mondo in cui gli Stati Uniti sono protagonisti, dall’Iraq al Medio Oriente a Guantanamo.

Terza brutta notizia per l’amministrazione Obama: il partito repubblicano non è al tappeto. Disorganizzato sì, e lo si è visto nel distretto elettorale 23 a nord di New York, al confine con il Canada. Qui il “Grand old party”, in una elezione suppletiva, si è diviso tra due candidati, Dede Scozzafava e Doug Hoffman. La prima, repubblicana ma favorevole all’aborto, si è ritirata dalla corsa a pochi giorni dal voto, invitando i suoi elettori a votare per il democratico Bill Owens; e comunque il nome della Scozzafava, che era presente sulla scheda, ha preso il 5% dei voti. Tanto è bastato a trasformare la vittoria certa dei repubblicani in una sconfitta per tre punti percentuali. Nonostante queste lacerazioni - per nulla nuove - sui temi etici, i repubblicani, un anno dopo aver lasciato la Casa Bianca a Obama, hanno mostrato di potersi prendere subito le loro rivincite.

Soprattutto, la sconfitta incassata dai candidati di Obama fa sperare bene per il prossimo anno, quando si voterà per eleggere 36 membri del Senato, dove oggi i democratici controllano 60 voti (inclusi quelli di due senatori indipendenti) contro i 40 dei repubblicani: una maggioranza qualificata che consente al partito di Obama di neutralizzare ogni tentativo di ostruzionismo da parte dell’opposizione. Le 36 poltrone in palio nel 2010 sono divise in modo equo tra democratici e repubblicani. Questi ultimi contano di strappare qualche seggio agli avversari per ridurre le distanze e poter tornare a fare ostruzionismo. Tanto basterebbe a rendere la vita di Obama assai più complicata. Un obiettivo che da ieri appare molto meno lontano.

© Libero. Pubblicato il 5 novembre 2009.

Post scriptum. Per gli interessati, indispensabile l'analisi del voto di Karl Rove sul Wall Street Journal.

Post popolari in questo blog

L'articolo del compagno Giorgio Napolitano contro Aleksandr Solzhenitsyn

Anche De Benedetti scarica Veltroni

Quando Napolitano applaudiva all'esilio di Solzhenitsyn