Il balzello sui processi e i veri conti della giustizia
di Fausto Carioti
Ma sì che alla fine una soluzione salta fuori: siamo pur sempre in Italia, no? E allora se Silvio Berlusconi vuole avere la legge sul processo breve, e se Gianfranco Fini gli risponde che si può fare solo se aumentano i finanziamenti per la giustizia, e se Giulio Tremonti dice a tutti e due «bamboli, non c’è una lira», state tranquilli che alla fine ogni cosa si mette a posto e quei soldi si trovano. Dove? Bravi, indovinato: nelle vostre tasche.
Sta succedendo in queste ore. Il governo ha appena presentato in Parlamento un emendamento alla Finanziaria da esso stesso preparata pochi giorni fa. Con questa modifica aumenta il «contributo unificato» per le spese degli atti giudiziari. Insomma, rincara il balzello sui processi, che ovviamente deve essere pagato da chi promuove la causa. L’aumento riguarda sia il costo della tassa, sia i casi in cui esso è applicato, poiché il contributo viene esteso a fattispecie di processi che al momento ne erano esenti: nel processo penale, ad esempio, oggi di fatto il balzello non esiste. Due, spiegano dal governo, i motivi della novità: recuperare parte dei soldi per la giustizia che Berlusconi si è impegnato a trovare e indurre gli italiani, popolo litigioso, a fare meno cause, rendendo il ricorso al giudice un po’ più caro. La ragione vera, ovviamente, è la prima, perché nessuna persona sana di mente può pensare che chi è disposto a dare migliaia di euro a un avvocato si tiri poi indietro davanti a qualche banconota da dieci. Insomma, le aule di tribunale resteranno affollate come prima e l’effetto deterrente, se ci sarà, colpirà solo chi ha già problemi a mettere insieme il pranzo con la cena.
Non male, per il governo che aveva promesso di tagliare le tasse: imporre un balzello in più per finanziare un settore già foraggiato in modo abbondante. Perché quello che né Berlusconi né Fini né Tremonti né Angelino Alfano e tantomeno Pier Luigi Bersani e gli altri della sinistra hanno il coraggio di dire è che la giustizia italiana, di soldi, ne ha già abbastanza. Più di quanti ne abbiano gli apparati giudiziari di molti altri Paesi europei. I dati, pubblici, sono quelli della Commissione europea per l’efficienza della giustizia (Cepej), organismo del consiglio d’Europa. Dal cui rapporto annuale si apprende che ogni italiano paga 45 euro l’anno per il funzionamento dei tribunali: i francesi, per dire, ne sborsano 38, gli inglesi 28. E finanziare la pubblica accusa costa a ogni italiano 23 euro, laddove i francesi ne pagano 11 e gli inglesi 15. In compenso, l’Italia è vergognosamente indietro nella spesa per il patrocinio gratuito, che serve a pagare gli avvocati d’ufficio a chi non può permettersi un legale: qui si stanziano 1,5 euro per abitante, contro i 4,8 della Francia, i 6,8 della Germania e i 56,2 dell’Inghilterra.
E allora, se i finanziamenti ci sono, come mai in alcune procure manca persino la carta per fare le fotocopie? Il motivo principale è che, a differenza che nel resto d’Europa, in Italia i soldi sono usati male. E cioè soprattutto per pagare gli stipendi dei magistrati e del resto del personale, e non per mandare avanti la macchina della giustizia. Di tutti i soldi stanziati per i tribunali, in Italia il 70% è destinato agli stipendi. Solo il 2% è speso per l’informatizzazione e lo 0,06% per l’addestramento del personale. In Francia, dove le buste paga di giudici e affini non sono certo da fame, gli stipendi assorbono il 55% del budget; in Germania il 57%. E se è vero che agli inizi lo stipendio annuale di un giudice italiano (37.454 euro lordi, dati del 2006) è quasi identico a quello di un francese (35.777 euro) o di un tedesco (38.829), alla fine della carriera i nostri, con 122.278 euro l’anno, guadagnano 17.000 euro più di un francese e 35.800 euro più di un tedesco. L’Italia ha più tribunali degli altri Paesi europei, e dispone di organici più abbondanti. In compenso, secondo i dati del ministro Renato Brunetta, i nostri giudici lavorano in media non più di quattro ore al giorno, e la loro produttività (come documentato da Stefano Livadiotti nel libro “L’ultracasta”) è in calo.
Così, a conti fatti, ci sarebbero mille motivi per pretendere una giustizia più efficiente - razionalizzando gli organici, migliorando la spesa - senza spennare sempre i soliti polli. Ma è una strada politicamente impraticabile. Perché sennò le toghe dicono che il governo vuole far fallire la giustizia, e il Quirinale si schiera con loro, e Fini si dice d’accordo con Giorgio Napolitano e la sinistra figuriamoci. Gli unici che pagano e stanno zitti, per definizione, sono i contribuenti. Peccato che stavolta, ad approfittarne, sia quel governo che doveva alleggerire la pressione fiscale.
© Libero. Pubblicato il 29 novembre 2009.
Ma sì che alla fine una soluzione salta fuori: siamo pur sempre in Italia, no? E allora se Silvio Berlusconi vuole avere la legge sul processo breve, e se Gianfranco Fini gli risponde che si può fare solo se aumentano i finanziamenti per la giustizia, e se Giulio Tremonti dice a tutti e due «bamboli, non c’è una lira», state tranquilli che alla fine ogni cosa si mette a posto e quei soldi si trovano. Dove? Bravi, indovinato: nelle vostre tasche.
Sta succedendo in queste ore. Il governo ha appena presentato in Parlamento un emendamento alla Finanziaria da esso stesso preparata pochi giorni fa. Con questa modifica aumenta il «contributo unificato» per le spese degli atti giudiziari. Insomma, rincara il balzello sui processi, che ovviamente deve essere pagato da chi promuove la causa. L’aumento riguarda sia il costo della tassa, sia i casi in cui esso è applicato, poiché il contributo viene esteso a fattispecie di processi che al momento ne erano esenti: nel processo penale, ad esempio, oggi di fatto il balzello non esiste. Due, spiegano dal governo, i motivi della novità: recuperare parte dei soldi per la giustizia che Berlusconi si è impegnato a trovare e indurre gli italiani, popolo litigioso, a fare meno cause, rendendo il ricorso al giudice un po’ più caro. La ragione vera, ovviamente, è la prima, perché nessuna persona sana di mente può pensare che chi è disposto a dare migliaia di euro a un avvocato si tiri poi indietro davanti a qualche banconota da dieci. Insomma, le aule di tribunale resteranno affollate come prima e l’effetto deterrente, se ci sarà, colpirà solo chi ha già problemi a mettere insieme il pranzo con la cena.
Non male, per il governo che aveva promesso di tagliare le tasse: imporre un balzello in più per finanziare un settore già foraggiato in modo abbondante. Perché quello che né Berlusconi né Fini né Tremonti né Angelino Alfano e tantomeno Pier Luigi Bersani e gli altri della sinistra hanno il coraggio di dire è che la giustizia italiana, di soldi, ne ha già abbastanza. Più di quanti ne abbiano gli apparati giudiziari di molti altri Paesi europei. I dati, pubblici, sono quelli della Commissione europea per l’efficienza della giustizia (Cepej), organismo del consiglio d’Europa. Dal cui rapporto annuale si apprende che ogni italiano paga 45 euro l’anno per il funzionamento dei tribunali: i francesi, per dire, ne sborsano 38, gli inglesi 28. E finanziare la pubblica accusa costa a ogni italiano 23 euro, laddove i francesi ne pagano 11 e gli inglesi 15. In compenso, l’Italia è vergognosamente indietro nella spesa per il patrocinio gratuito, che serve a pagare gli avvocati d’ufficio a chi non può permettersi un legale: qui si stanziano 1,5 euro per abitante, contro i 4,8 della Francia, i 6,8 della Germania e i 56,2 dell’Inghilterra.
E allora, se i finanziamenti ci sono, come mai in alcune procure manca persino la carta per fare le fotocopie? Il motivo principale è che, a differenza che nel resto d’Europa, in Italia i soldi sono usati male. E cioè soprattutto per pagare gli stipendi dei magistrati e del resto del personale, e non per mandare avanti la macchina della giustizia. Di tutti i soldi stanziati per i tribunali, in Italia il 70% è destinato agli stipendi. Solo il 2% è speso per l’informatizzazione e lo 0,06% per l’addestramento del personale. In Francia, dove le buste paga di giudici e affini non sono certo da fame, gli stipendi assorbono il 55% del budget; in Germania il 57%. E se è vero che agli inizi lo stipendio annuale di un giudice italiano (37.454 euro lordi, dati del 2006) è quasi identico a quello di un francese (35.777 euro) o di un tedesco (38.829), alla fine della carriera i nostri, con 122.278 euro l’anno, guadagnano 17.000 euro più di un francese e 35.800 euro più di un tedesco. L’Italia ha più tribunali degli altri Paesi europei, e dispone di organici più abbondanti. In compenso, secondo i dati del ministro Renato Brunetta, i nostri giudici lavorano in media non più di quattro ore al giorno, e la loro produttività (come documentato da Stefano Livadiotti nel libro “L’ultracasta”) è in calo.
Così, a conti fatti, ci sarebbero mille motivi per pretendere una giustizia più efficiente - razionalizzando gli organici, migliorando la spesa - senza spennare sempre i soliti polli. Ma è una strada politicamente impraticabile. Perché sennò le toghe dicono che il governo vuole far fallire la giustizia, e il Quirinale si schiera con loro, e Fini si dice d’accordo con Giorgio Napolitano e la sinistra figuriamoci. Gli unici che pagano e stanno zitti, per definizione, sono i contribuenti. Peccato che stavolta, ad approfittarne, sia quel governo che doveva alleggerire la pressione fiscale.
© Libero. Pubblicato il 29 novembre 2009.