Le ragioni di Sarkozy e l'ingerenza di Obama

di Fausto Carioti

Viva Nicolas Sarkozy che dice «no» all’ingresso della Turchia nella Ue. Il presidente francese è l’unico che ha il coraggio di mettersi contro il multiculturalismo, ultima fede rimasta alla élite continentale, e di opporsi all’ingerenza americana. Perché di questo si tratta: un’intromissione negli affari nostri, e se fosse stato un leader diverso da Barack Obama a varcare l’Atlantico per venirci a dire che gli Stati Uniti «sostengono fortemente» l’arrivo della Turchia nell’Unione perché serve ad «allargare e rafforzare» le nostre fondamenta, a sinistra e nei governi europei tanti avrebbero rispettosamente chiesto allo yankee di non mettere il naso nelle nostre vicende. Invece il messaggio è venuto da Obama nell’alto dei cieli, impegnato a costruire un mondo più giusto per tutti. E a uno così non sta bene porre obiezioni. È toccato a Sarkozy dirgli la frase più vera e più banale: «Trattandosi della Ue, spetta ai Paesi membri decidere». Che nella lingua di Obama si legge: «Sorry mr president, we can’t».

Anche perché il presidente americano non è quel pacifista gonzo che ci raccontano le cronache marziane di nove decimi dell’informazione italiana. La sua decisione di sponsorizzare l’entrata della Turchia nella Ue, ribadita ieri davanti al parlamento di Ankara, è dettata da precise ragioni militari, strategiche ed economiche. Ma dire che la nuova amministrazione Usa (al pari di quelle che l’hanno preceduta) si muove secondo le logiche del controllo delle risorse mondiali degli idrocarburi e del raggio d’azione dei bombardieri, sembra un tabù.

Basta prendere una cartina geografica e leggersi un po’ di storia. La Turchia confina con la Siria, l’Iraq e l’Iran. La sua posizione l’ha resa l’avamposto naturale per le operazioni militari americane verso l’Afghanistan, diventato il teatro più importante per gli Stati Uniti. I quali, proprio per la sua collocazione geografica, ne fecero un membro strategico dell’Alleanza atlantica già nel 1952. Ankara ricambia le attenzioni di Washington inviando soldati a frotte ogni volta che la Casa Bianca lo chiede (quello turco, per dimensioni, è il secondo esercito della Nato). La Turchia è anche un crocevia decisivo delle pipeline che dalla Russia e dalle repubbliche dell’Asia centrale portano gli idrocarburi in Europa. Il gasdotto Nabucco, che secondo il disegno americano dovrà far arrivare ai paesi della Ue il gas di Azerbaigian, Turkmenistan e Kazakistan, sottraendolo al controllo russo, ha il suo capolinea proprio in Turchia, a Erzurum. E sempre in territorio turco, a Ceyhan, passa il grande oleodotto che fa arrivare sino al Mediterraneo il petrolio del mar Caspio: altra opera dalla grande rilevanza strategica.

Eppure, l’identità del Paese è ancora in bilico. Il primo ministro Recep Tayyip Erdogan e il suo partito, l’Akp, sono stati ritenuti responsabili dalla corte costituzionale turca di «attività anti-laiche», per aver tentato di islamizzare la legislazione. Le televisioni trasmettono programmi che accusano il cristianesimo e l’ebraismo di voler distruggere la religione islamica. Lo stesso Erdogan non si fa problemi a giocare di sponda con il primo ministro iraniano, l’impresentabile Mahmoud Ahmadinejad, e ad accusare con toni durissimi Israele, al punto da definire Hamas «vittima» dell’aggressione ebraica. Nei giorni scorsi Erdogan ha provato a fermare la nomina del primo ministro danese, Anders Fogh Rasmussen, a segretario generale della Nato, accusandolo di non essersi scusato per la pubblicazione delle vignette satiriche apparse nel 2005 sul giornale Jyllands-Posten. Per contro, i rapporti con la Russia di Vladimir Putin, grande rivale geopolitica degli Stati Uniti, sono ottimi. Oggi Mosca è il primo partner commerciale di Ankara (soprattutto grazie alle forniture di gas) e, insieme al governo di Teheran, sta cercando di sfilare la Turchia dalla sfera di influenza americana.

Un rischio che gli Stati Uniti hanno ben presente e che si stanno impegnando a scongiurare. Anche perché ritengono indispensabile avere la Turchia dalla loro parte durante il braccio di ferro che nei prossimi mesi li contrapporrà all’Iran e alle ambizioni nucleari di Ahmadinejad. Nei piani del Dipartimento di Stato, il governo di Ankara dovrà avere un compito importante anche nella partita irachena, esercitando un ruolo di guida nei confronti della giovanissima democrazia irachena quando le truppe statunitensi si saranno ritirate. Ma per far sì che la Turchia resti ancorata agli Stati Uniti e all’occidente, secondo Washington è necessario che entri a far parte dell’Unione europea.

Insomma, nel piano di Obama c’è molto calcolo politico e pochissimo idealismo. Soprattutto, il presidente americano non tiene conto delle conseguenze che l’ingresso turco avrebbe sulla Ue. Dalla perdita di quel poco di identità che essa ha oggi, piaccia o meno basato sulle radici culturali greche e cristiane, alle difficoltà che i singoli Paesi avrebbero ad accogliere la libera circolazione, entro i loro confini, di 70 milioni di turchi. L’esempio della Romania, il cui ingresso ci ha costretto a subire un flusso di immigrati non selezionato e con un alto tasso di delinquenza, qualcosa dovrebbe averci insegnato. Ovvio, le priorità di Obama sono altre. Mentre Silvio Berlusconi è troppo impegnato a saldare il suo rapporto con la nuova amministrazione e a tessere alleanze internazionali per non abbracciare la causa turca. E allora non ci resta che Sarkozy.

© Libero. Pubblicato il 7 aprile 2009.

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