Quello che non dicono di Marina Petrella

di Fausto Carioti

C'è qualcosa che manca negli articoli e nei commenti che in queste ore, tra Francia e Italia, imbellettano la vicenda della brigatista rossa Marina Petrella fino a farne una sorta di Ingrid Betancourt, una pasionaria buona, malata e ingiustamente prigioniera. Ci hanno detto e ripetuto che la Petrella ha perso venti chili e che le è stata diagnosticata una grave depressione, che si manifesterebbe sotto forma di «sindrome suicida». I suoi amici e familiari - abbiamo appreso - sono allarmati e il suo avvocato ritiene la sua profonda tristezza «incompatibile con la detenzione». Ci hanno mostrato le immagini dei reduci della gauche francese che manifestano davanti al carcere in cui è rinchiusa («Non à l'extradition de Marina Petrella», «Liberté immédiate pour Marina Petrella» si legge sui loro cartelli). Siamo stati edotti che tre punti di riferimento della sinistra post-ideologica, quali Fanny Ardant, Carla Bruni e sua sorella Valeria, chiedono la liberazione immediata della terrorista. Abbiamo scoperto che il presidente francese Nicolas Sarkozy - sotto questo aspetto non così diverso dai suoi predecessori - ha chiesto allo Stato italiano di concederle la grazia. Due giorni fa abbiamo letto sulle agenzie che i giudici francesi hanno rimesso la Petrella in libertà per motivi di salute, pur senza bloccare - almeno da un punto di vista formale - l'iter dell'estradizione. Soprattutto ci siamo accorti - non era molto difficile - che i nove decimi del giornalismo italiano fanno il tifo per lei, se non altro perché la sua faccia appare nel solito “album di famiglia” in cui figurano gli idoli ai quali i compagni giornalisti hanno dedicato gli anni migliori delle loro vite.

Tutto questo lo abbiamo compreso benissimo. Non si è capito, invece - forse perché non ce l'ha spiegato nessuno - perché la Petrella ha passato l'ultimo anno in carcere, e perché dovrebbe restarci sino alla fine dei suoi giorni. Devono aver pensato che i motivi della sua condanna fossero roba vecchia, che non interessa più nessuno: quello che conta è solo il qui, l'adesso. L'unico messaggio che passa è che lei è tanto malata e che il governo di Roma, infame, insiste per estradarla. Ma è un ragionamento che non fila molto, specie se portato avanti da quelli che pochi giorni fa, commemorando la strage di Bologna, ci avevano ammonito che invece bisogna ricordare tutto, i nomi delle vittime e quelli dei carnefici, il come e il quando e il perché.

Per dire: gli stessi quotidiani e i notiziari che ieri hanno tenuto a farci sapere che le sorelle Bruni si sono mobilitate in favore della brigatista si sono ben guardati dal fare il nome di Sebastiano Vinci. I più scrupolosi si sono limitati a dire che la Petrella è stata condannata per l'omicidio di un non meglio specificato «commissario di polizia». Invece bisogna ricordare, sennò diventa tutto troppo facile: Vinci, capo del commissariato di Primavalle, a Roma, fu trucidato il 19 giugno del 1981 dai brigatisti della colonna “28 marzo”, che gli tesero un agguato mentre la sua automobile era ferma a un semaforo. Aveva 44 anni. Sua moglie, dopo l'omicidio, cadde in un profondo stato di depressione, si ammalò e morì. L'autista di Vinci, Pacifico Votto, anche se crivellato di colpi riuscì a difendersi ed è sopravvissuto. L'attentato fu voluto da Luigi Novelli, marito della Petrella, perché Vinci era riuscito a bloccare l'attività dei terroristi nella sua zona. E l'organizzazione dell'agguato fu opera della stessa Petrella, che comandava l'ala combattente delle Br romane e fece portare a termine l'incarico dai killer della brigata Primavalle.

La carriera da terrorista della Petrella era iniziata alla fine degli anni Settanta, quando lavorava nella segreteria di una scuola romana. Fu arrestata una prima volta nel gennaio del 1979, assieme al marito, e incriminata per costituzione di banda armata nell'ambito del processo Moro. Nel maggio del 1980 i due uscirono dal carcere per decorrenza dei termini di carcerazione preventiva e spediti in soggiorno obbligato a Montereale, in provincia dell'Aquila, da dove però fuggirono nell'agosto dello stesso anno e divennero latitanti. Inseguita da altri cinque mandati di cattura, nel dicembre del 1982 fu di nuovo arrestata insieme al marito, al termine di uno scontro a fuoco con i carabinieri avvenuto in un autobus romano. Nel novembre del 1985 la corte di Cassazione emise la prima condanna definitiva nei suoi confronti: otto anni di reclusione per partecipazione ad associazione sovversiva e banda armata, più una serie di reati minori. Anche dal carcere continuò a sottoscrivere, assieme ad altri “irriducibili”, documenti inneggianti alla lotta armata. Ciò nonostante, nel luglio del 1988 ottenne la scarcerazione anticipata.

Poco dopo essere uscita di prigione, è condannata all'ergastolo per l'omicidio di Vinci, per l'attentato al vice questore Nicola Simone e per il sequestro del giudice D'Urso. La sentenza diventa definitiva con il verdetto della Cassazione del maggio 1993. Ma lei è già scappata in Francia da un mese, assieme alla sua famiglia. Localizzata nel '94, l'Interpol ne chiede l'arresto per estradarla in Italia, ma le autorità francesi fanno orecchie da mercante. Viene arrestata solo nell'agosto del 2007, dopo tredici anni, durante i quali conduce una vita normalissima con la sua famiglia. A dicembre la corte d'appello di Versailles concede l'estradizione verso l'Italia, ma lei sostiene di essere entrata in una grave fase depressiva e così, due giorni fa, i magistrati francesi le garantiscono la libertà condizionale per motivi di salute.

A cavallo delle Alpi, la campagna per non consegnarla al governo italiano e liberarla immediatamente per motivi che di facciata sono umanitari, ma che in realtà sono tutti politici, è già partita e fa sentire la sua voce sin dentro la stanza da letto di Sarkozy. Nessuno fa presente che, a conti fatti, dell'ergastolo che le è stato inflitto nel 1993 per reati di sangue tanto gravi, la Petrella, sino ad oggi, ha scontato appena un anno di carcere. Uno solo. Nessuno sembra prestare importanza al fatto che, per tutti i reati di cui è stata trovata colpevole, l'irriducibile Petrella non si è mai né pentita né scusata.

© Libero. Pubblicato il 7 agosto 2008.

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