Il coraggio delle rane

di Fausto Carioti

Urca che coraggio. Cribbio che schiene dritte. Che tempra vantano questi eroi della sedicente arte moderna, quale rispetto per la libertà ostentano dinanzi al dilagante oscurantismo ratzingeriano i direttori dei musei italiani ed europei. Le agenzie di stampa ieri hanno diffuso il pensiero di Benedetto XVI sull’anfibio più famoso d’Europa, la rana crocifissa esposta al Museion di Bolzano, scultura (chiamiamola così) del tedesco Martin Kippenberger, scomparso undici anni fa. Sarebbe - pare, dicono - una sorta di autoritratto dell’autore in una delle sue tante fasi di depressione. In una lettera del 7 agosto a Franz Pahl, presidente del consiglio regionale del Trentino-Alto Adige e candidato Svp alle provinciali di Bolzano, la segreteria di Stato vaticana, a nome di Joseph Ratzinger, ha scritto che l’esposizione della rana «ha ferito il sentimento religioso di tante persone». Considerazione peraltro ovvia, che fa seguito alle preoccupazioni del vescovo di Bolzano e di altri esponenti cattolici, espressa dal papa a un candidato alla guida di quella stessa provincia che finanzia l’attività del museo con i soldi pubblici. È stato proprio Pahl, ieri, a rendere noto il contenuto della lettera. Pochi minuti dopo è intervenuta la direttrice del museo per far sapere che lei, a togliere la rana che non piace al pontefice, manco ci pensa. Con toni risentiti, ha chiesto che il museo «non venga ulteriormente strumentalizzato nell’ambito della campagna elettorale». In serata il presidente della fondazione che gestisce il Museion ha persino minacciato di dimettersi se la rana, come pare, oggi sarà rimossa.

Bene, bravi, così si fa: la libertà d’espressione innanzitutto. L’arte o è libera o non è. Fingiamo persino di credere che dietro la scelta della scultura di Kippenberger, inizialmente esposta all’ingresso del museo, non ci sia stata alcuna voglia di scatenare polemiche per attirare visitatori. C’è da capire solo un’ultima cosa: come mai tutto questo coraggio, questo difendere l’autonomia dell’arte come se fosse l’ultimo baluardo della civiltà, vengono fuori solo quando c’è da irridere o accusare la chiesa cattolica. A nessuno - per dire - passa per la testa di fare la stessa cosa quando di mezzo c’è l’Islam. Anzi: le poche volte che qualcuno urta - spesso senza volerlo - la suscettibilità dei musulmani, subito direttori di musei, organizzatori di mostre e politici locali rimuovono le opere in questione. Scusandosi e promettendo che non lo rifaranno più. Per qualche strano motivo, offendere la Chiesa cattolica è ritenuto un libero esercizio del ruolo di artista, mentre dare un buffetto all’Islam è una manifestazione di razzismo, una minaccia in tollerabile al dialogo con il mondo musulmano.

Ci sarebbe da riempire un’enciclopedia, con certi episodi. Lo scorso novembre all’artista svedese Larks Vilks è stato impedito di esibire la propria installazione a una biennale d’arte nel sud della Svezia. Vilks in passato aveva realizzato alcuni disegni raffiguranti Maometto nei panni di un cane, e per questo era stato minacciato di morte dai volenterosi carnefici di Allah. Notare che Vilks è stato censurato senza che nemmeno gli fosse chiesto quali opere intendesse esporre. Negli stessi giorni a Den Hag, in Olanda, il museo cittadino ha tolto da un’esibizione il dipinto dell’iraniana Sooreh Hera che mostrava due omosessuali con indosso le maschere di Maometto e di suo genero Alì. In precedenza, a Londra, la Tate Gallery aveva rimosso il quadro di John Latham “God Is Great”, all’interno del quale erano state inserite copie della Bibbia e del Corano (l’autore, incavolato, ha accusato la Tate Gallery di codardia).

Anche perché il concetto di “suscettibilità islamica” è piuttosto esteso, e va ben oltre Maometto e i suoi familiari. Un documentario sul Bangladesh realizzato dalla anglo-bengalese Syra Miah è stato cancellato dal museo di Birmingham perché conteneva l’immagine di una donna seminuda, e questo, secondo la direzione del museo, avrebbe potuto urtare la sensibilità dei visitatori musulmani. A Londra la galleria di Whitechapel ha rimosso alcuni quadri del surrealista Hans Bellmer, che mostravano ragazze svestite. «Lo abbiamo fatto per non shockare la popolazione islamica del quartiere», ha spiegato il curatore. Il museo della Cultura Mondiale di Goteborg, in Svezia, ha fatto sparire in fretta e furia il quadro “Scène d’amour”, che il suo autore, la franco-algerina Louzla Darabi, aveva descritto come «una risposta all’ipocrisia musulmana sulla sessualità, soprattutto quella delle donne». Quale sia il clima lo ha spiegato senza giri di parole, pochi mesi fa, Grayson Perry, uno dei più noti artisti inglesi: «Il motivo per il quale nella mia arte non ho attaccato l’integralismo islamico è che ho realmente paura che qualcuno mi tagli la gola».

In questi casi, come in tutti gli altri, a nessuno del circolo degli artisti impegnati e a nessuno del clubbino dei direttori dei musei artistici (un centinaio di persone, sempre le stesse, che si sopportano a vicenda da una vita) è saltato in mente di appellarsi alla libertà dell’arte. Tantomeno di sottoscrivere un manifesto di solidarietà per chi ha subito minacce, è stato censurato e magari ha dovuto cambiare vita e identità. Tutti obbedienti, tutti zitti, tutti impegnati a fingere di guardare altrove. Tutti pronti a svegliarsi appena il vescovo di turno criticherà la prossima rana. Che coraggio, che schiene dritte.

© Libero. Pubblicato il 28 agosto 2008.

Aggiornamento del 28 agosto, ore 19. La rana del Museion, si è saputo qualche minuto fa, resta al suo posto.

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