Perché Obama deluderà la sinistra italiana
di Fausto Carioti
Orfana di Romano Prodi, delusa da Massimo D’Alema, basita da Walter Veltroni, la sinistra italiana sta cercando rifugio nella garçonnière del candidato democratico alla Casa Bianca. Se dalle nostre parti, con l’aria che tira, dovranno arrangiarsi con gli avanzi che cascano dal tavolo della politica almeno per altri quattro anni e mezzo, volgendo lo sguardo oltreoceano possono sognare vittorie trionfali a portata di mano, marce gloriose lungo la Pennsylvania Avenue, nuove frontiere kennediane aperte su mondi più liberi e giusti. Peccato solo che il copione sia già scritto: chiunque vinca le presidenziali americane, anche stavolta li lascerà delusi.
Al momento i sondaggi danno l’idolo di Veltroni e di quasi tutti i corrispondenti italiani, Barack Obama, testa a testa con il suo rivale repubblicano, John McCain. Se dovesse vincere quest’ultimo, manco a dirlo, la sinistra italiana dovrebbe vestire a lutto per altri quattro anni. Ma anche se il prossimo presidente americano fosse Obama, chi immagina una svolta di 180 gradi rispetto alle scelte di Bush è destinato a restarci male. Il volto che sta mostrando il senatore dell’Illinois è ben diverso dalla immagine che si sono fatti Veltroni e i suoi compagni di partito volati a Denver per la convention democratica, e da qui al voto il suo profilo moderato diventerà sempre più evidente.
Già la scelta più importante, quella del vice (gli uomini restano, i programmi possono cambiare), ha deluso tanti che da Obama si attendevano chissà quale modo nuovo di fare politica: Joe Biden, 65 anni, è un politico di vecchio corso, cattolico, gradito anche a molti repubblicani. Votò a favore della guerra in Iraq e non ha mai lesinato elogi per McCain. Obama ha scelto Biden dopo aver dato alla sua campagna elettorale un chiaro indirizzo in favore dei valori della famiglia, tema sgradito a molti liberal americani come a tanti esponenti della sinistra italiana.
Sull’Iraq Obama stesso ha finito per collocarsi su posizioni ben diverse da quelle dei suoi supporter italiani. Già alla fine di febbraio, pur ribadendo di essere contrario alla guerra, aveva ammesso che l’invio di nuove truppe è stato decisivo per ridurre le violenze e ha rappresentato una «vittoria tattica» per gli Stati Uniti. Se dovesse diventare presidente, ha promesso di ritirare il contingente americano, assicurando però che l’operazione sarà tutt’altro che immediata: ci vorranno sedici mesi dal suo arrivo alla Casa Bianca.
La guerra in Iraq, che tanto appassiona ancora da queste parti, sta comunque passando in secondo piano nell’interesse degli elettori americani, che mostrano invece i primi segni di preoccupazione per la Russia di Vladimir Putin. Il tema della sicurezza e della lotta al terrorismo, ovviamente, resta decisivo. Su tutti questi argomenti, McCain è ritenuto più affidabile dagli elettori. È probabile, quindi, che nelle prossime settimane Obama tenti la manovra già realizzata con successo nei confronti di Hillary Clinton, sua rivale per la nomination democratica: scavalcare “a destra” il rivale, mostrandosi più fermo e intransigente dello stesso McCain. Difficilmente, insomma, sentiremo da Obama frasi distensive nei confronti di Putin.
Chiunque vinca, poi, è lecito attendersi dalla prossima amministrazione americana un’apertura di credito, almeno iniziale, nei confronti dell’Unione europea. Ma va da sé che né Obama né McCain hanno intenzione di togliere agli Stati Uniti quel ruolo di “iperpotenza” militare che risulta tanto sgradito ai leader dell’Europa continentale.
Del resto, le scelte dei presidenti americani nel dopoguerra, almeno sul fronte della politica estera, sono state in sostanziale continuità, nonostante si siano succedute amministrazioni democratiche e repubblicane. Chi ancora nutre qualche illusione farebbe bene a guardare quanto fatto dai democratici. Nel 1950 Harry S. Truman, senza nemmeno consultarsi con il congresso, trascinò gli Stati Uniti nella guerra contro la Corea del Nord. Fu John Fitzgerald Kennedy, sino alla sua morte nel 1963, ad avviare l’escalation militare americana in Vietnam. Il suo programma di governo prevedeva di creare in Indocina «una società sempre più democratica», tramite azioni «militari, politiche, economiche e psicologiche». Ucciso Kennedy, l’uomo che costui aveva scelto come vicepresidente, Lyndon Baines Johnson, spedì oltre mezzo milione di soldati nella giungla vietnamita. In altre parole l’esportazione della democrazia con le bombe e i carri armati, voluta in Iraq dai falchi neocon dell’amministrazione Bush, ha il suo precedente proprio nella politica di Kennedy. Eppure la sinistra italiana, ancora in questi giorni, continua a rivendere Kennedy come la versione in doppio petto del Mahatma Gandhi.
In anni più recenti è toccato a Bill Clinton avviare l’intervento della Nato in Kosovo, spaccando la sinistra italiana. E persino sul fronte dell’ecologia, altro tema che sta a cuore ai nostri progressisti, Bush può vantare un predecessore democratico: Clinton, dopo aver fatto mettere da Al Gore una firma simbolica sul trattato di Kyoto, lo chiuse in un cassetto e si guardò bene dal sottoporlo al giudizio del Senato. Se la storia insegna qualcosa, qualora Obama dovesse vincere il centrosinistra italiano farebbe bene a non ridere troppo.
© Libero. Pubblicato il 27 agosto 2008.
Post scriptum. Come era facile prevedere, l'atteggiamento nettamente pro-family di Obama sta deludendo molti dei suoi supporter. Il tycoon dell'editoria gay statunitense, Paul Colichman, ha appena detto al New York Post che non appoggerà il candidato democratico:
Orfana di Romano Prodi, delusa da Massimo D’Alema, basita da Walter Veltroni, la sinistra italiana sta cercando rifugio nella garçonnière del candidato democratico alla Casa Bianca. Se dalle nostre parti, con l’aria che tira, dovranno arrangiarsi con gli avanzi che cascano dal tavolo della politica almeno per altri quattro anni e mezzo, volgendo lo sguardo oltreoceano possono sognare vittorie trionfali a portata di mano, marce gloriose lungo la Pennsylvania Avenue, nuove frontiere kennediane aperte su mondi più liberi e giusti. Peccato solo che il copione sia già scritto: chiunque vinca le presidenziali americane, anche stavolta li lascerà delusi.
Al momento i sondaggi danno l’idolo di Veltroni e di quasi tutti i corrispondenti italiani, Barack Obama, testa a testa con il suo rivale repubblicano, John McCain. Se dovesse vincere quest’ultimo, manco a dirlo, la sinistra italiana dovrebbe vestire a lutto per altri quattro anni. Ma anche se il prossimo presidente americano fosse Obama, chi immagina una svolta di 180 gradi rispetto alle scelte di Bush è destinato a restarci male. Il volto che sta mostrando il senatore dell’Illinois è ben diverso dalla immagine che si sono fatti Veltroni e i suoi compagni di partito volati a Denver per la convention democratica, e da qui al voto il suo profilo moderato diventerà sempre più evidente.
Già la scelta più importante, quella del vice (gli uomini restano, i programmi possono cambiare), ha deluso tanti che da Obama si attendevano chissà quale modo nuovo di fare politica: Joe Biden, 65 anni, è un politico di vecchio corso, cattolico, gradito anche a molti repubblicani. Votò a favore della guerra in Iraq e non ha mai lesinato elogi per McCain. Obama ha scelto Biden dopo aver dato alla sua campagna elettorale un chiaro indirizzo in favore dei valori della famiglia, tema sgradito a molti liberal americani come a tanti esponenti della sinistra italiana.
Sull’Iraq Obama stesso ha finito per collocarsi su posizioni ben diverse da quelle dei suoi supporter italiani. Già alla fine di febbraio, pur ribadendo di essere contrario alla guerra, aveva ammesso che l’invio di nuove truppe è stato decisivo per ridurre le violenze e ha rappresentato una «vittoria tattica» per gli Stati Uniti. Se dovesse diventare presidente, ha promesso di ritirare il contingente americano, assicurando però che l’operazione sarà tutt’altro che immediata: ci vorranno sedici mesi dal suo arrivo alla Casa Bianca.
La guerra in Iraq, che tanto appassiona ancora da queste parti, sta comunque passando in secondo piano nell’interesse degli elettori americani, che mostrano invece i primi segni di preoccupazione per la Russia di Vladimir Putin. Il tema della sicurezza e della lotta al terrorismo, ovviamente, resta decisivo. Su tutti questi argomenti, McCain è ritenuto più affidabile dagli elettori. È probabile, quindi, che nelle prossime settimane Obama tenti la manovra già realizzata con successo nei confronti di Hillary Clinton, sua rivale per la nomination democratica: scavalcare “a destra” il rivale, mostrandosi più fermo e intransigente dello stesso McCain. Difficilmente, insomma, sentiremo da Obama frasi distensive nei confronti di Putin.
Chiunque vinca, poi, è lecito attendersi dalla prossima amministrazione americana un’apertura di credito, almeno iniziale, nei confronti dell’Unione europea. Ma va da sé che né Obama né McCain hanno intenzione di togliere agli Stati Uniti quel ruolo di “iperpotenza” militare che risulta tanto sgradito ai leader dell’Europa continentale.
Del resto, le scelte dei presidenti americani nel dopoguerra, almeno sul fronte della politica estera, sono state in sostanziale continuità, nonostante si siano succedute amministrazioni democratiche e repubblicane. Chi ancora nutre qualche illusione farebbe bene a guardare quanto fatto dai democratici. Nel 1950 Harry S. Truman, senza nemmeno consultarsi con il congresso, trascinò gli Stati Uniti nella guerra contro la Corea del Nord. Fu John Fitzgerald Kennedy, sino alla sua morte nel 1963, ad avviare l’escalation militare americana in Vietnam. Il suo programma di governo prevedeva di creare in Indocina «una società sempre più democratica», tramite azioni «militari, politiche, economiche e psicologiche». Ucciso Kennedy, l’uomo che costui aveva scelto come vicepresidente, Lyndon Baines Johnson, spedì oltre mezzo milione di soldati nella giungla vietnamita. In altre parole l’esportazione della democrazia con le bombe e i carri armati, voluta in Iraq dai falchi neocon dell’amministrazione Bush, ha il suo precedente proprio nella politica di Kennedy. Eppure la sinistra italiana, ancora in questi giorni, continua a rivendere Kennedy come la versione in doppio petto del Mahatma Gandhi.
In anni più recenti è toccato a Bill Clinton avviare l’intervento della Nato in Kosovo, spaccando la sinistra italiana. E persino sul fronte dell’ecologia, altro tema che sta a cuore ai nostri progressisti, Bush può vantare un predecessore democratico: Clinton, dopo aver fatto mettere da Al Gore una firma simbolica sul trattato di Kyoto, lo chiuse in un cassetto e si guardò bene dal sottoporlo al giudizio del Senato. Se la storia insegna qualcosa, qualora Obama dovesse vincere il centrosinistra italiano farebbe bene a non ridere troppo.
© Libero. Pubblicato il 27 agosto 2008.
Post scriptum. Come era facile prevedere, l'atteggiamento nettamente pro-family di Obama sta deludendo molti dei suoi supporter. Il tycoon dell'editoria gay statunitense, Paul Colichman, ha appena detto al New York Post che non appoggerà il candidato democratico:
"I thought, 'Get over yourself!' I had literally written out a check to the Obama campaign. And then I saw him in front of an evangelical group in Anaheim," he said.
Before Rick Warren at the Saddleback Civil Forum, both Obama and McCain defined marriage as a union between a man and a woman.
"I thought, 'Wow! He just threw the gay community under the bus,' " Colichman said. "My partner looked over at me, and we tore up the check."