Se perdono loro non vale
di Fausto Carioti
Se perdiamo non vale. Così, storpiando Julio Iglesias, le macerie dell’Unione rotolano verso quella che si preannuncia come una batosta senza precedenti. Sono a picco nei sondaggi, anche in quelli dei quotidiani amici: secondo Repubblica, nell’ipotesi più plausibile, quella che vede il centrosinistra diviso e la Cdl candidarsi unita, il centrodestra conquista il 53,7% dei voti e l’attuale maggioranza arranca a quota 46%. Altre rilevazioni fotografano un divario ancora più ampio e, nelle regioni più popolate del Nord danno il centrosinistra sotto di venti o trenta punti. Sono lacerati al loro interno, assai più di quanto appaia a prima vista. Marco Damilano, sull’Espresso, ha appena raccontato l’applauso da stadio scattato alla fondazione del cinema per Roma quando il Senato ha staccato la spina al governo Prodi: a spellarsi le mani erano i fedelissimi di Goffredo Bettini, il braccio destro di Walter Veltroni. Quanto a Massimo D’Alema, forse annunciando la sua idea di far votare il prima possibile il referendum elettorale intendeva davvero mettere in crisi l’opposizione. Ma l’unico risultato che ha raggiunto è stato convincere Fausto Bertinotti a dichiarare chiusa la legislatura. Niente di strano, insomma, se la nuova linea di difesa che si sono scelti D’Alema e i suoi fidati dà già per scontata la sconfitta alle urne: il prossimo parlamento, sostengono costoro, sarà illegittimo.
L’appiglio è stato fornito dalla Corte costituzionale. La quale nei giorni scorsi, dichiarando ammissibile il referendum di Mario Segni e Giovanni Guzzetta, ha detto che l’attuale legge elettorale è «carente», poiché assegna il premio di maggioranza alla coalizione vincente indipendentemente dal raggiungimento di una quota minima di voti. Dentro al Pd non aspettavano altro. Il ministro degli Esteri ha spiegato, in una lettera al Corriere della Sera, che «le carenze e le incongruenze della legge elettorale gettano un’ombra sulla sua legittimità costituzionale». Il suo fedelissimo Nicola Latorre, parlando al Manifesto, ha minacciato un ricorso subito dopo le elezioni. Il presidente dei senatori del Pd, Anna Finocchiaro, ha fatto lo stesso sul Sole-24 Ore: «Se venisse presentato un ricorso alla Consulta, è probabile che la Corte dichiarerebbe incostituzionale la legge. E la conseguenza sarebbe la fine della legislatura». Con la scusa di voler convincere Berlusconi ad accettare il governo Marini, gli si fa capire che, se non cede, a vittoria ottenuta gli scateneranno contro i giudici costituzionali.
Abituato ai magistrati del pool di Milano, Berlusconi non si è scomposto. Sia perché gli avvertimenti del Pd non hanno solidi fondamenti giuridici (come spiega bene in queste pagine il costituzionalista Nicolò Zanon). Sia perché le ragioni dei suoi avversari sono portate avanti in modo dilettantesco. Lo stesso D’Alema sostiene che, piuttosto che andare al voto subito con la legge in vigore, è meglio far votare prima il referendum. Peccato che, se si vuole dare retta alla Consulta, come lui dice di voler fare, la legge elettorale referendaria sia ancora più «carente» di quella attuale, poiché assegna il premio di maggioranza non alla coalizione che prende più voti, ma al singolo partito. Se voleva atteggiarsi a costituzionalista, Baffino doveva studiare meglio la pratica.
Anche Franco Marini ci mette del suo. Stamattina incontrerà i vertici di Confindustria e di altre associazioni datoriali. Poi sarà il turno dei sindacati. Gli agiografi di Marini ce la stanno vendendo come una mossa astuta, partorita dalla mente acuta del lupo marsicano, vecchio sindacalista. In realtà il suo è un gesto contraddittorio, che sconfessa quello che lo stesso Marini e Giorgio Napolitano hanno detto in questi giorni. Il presidente della Repubblica aveva spiegato che quello di Marini era un «mandato finalizzato a verificare la possibilità di riformare la legge elettorale». Ma questa è materia che riguarda solo le forze politiche e il Parlamento. Imprenditori e sindacati non c’entrano nulla. Certo, hanno interesse ad avere una legge elettorale che dia vita a governi stabili. Ma lo stesso interesse ce l’hanno, ad esempio, i proprietari d’immobili, che in Italia sono milioni. Eppure nessuno ha invitato i rappresentanti di Confedilizia. Ed è difficile dare torto al Forum delle Famiglie quando chiede a Marini di essere convocato «al pari di altre componenti sociali».
Diciamo allora che l’ex leader della Cisl sta cercando di capire se esistono margini per varare un “governo della concertazione”, con obiettivi più ampi di quelli dichiarati. Sapendo di non avere una maggioranza politica e probabilmente, al Senato, nemmeno una maggioranza numerica, prova ad accreditare il suo governo davanti a grandi imprese e sindacati come l’esecutivo delle riforme condivise, col quale un po’ tutti avranno qualcosa da guadagnare. Per poi mettere Berlusconi al bivio: sfidare un vasto blocco d’interessi (e i suoi organi d’informazione) o chinare il capo.
Ma il trucco, anche in questo caso, è pacchiano. Marini non ha convocato tutte le parti sociali. Abi e Ania, le due grandi associazioni che rappresentano banche e assicurazioni, pur essendo state interpellate dalle altre hanno scelto di non firmare l’appello. E Marini non le ha chiamate (la gaffe è tale che potrebbe ripensarci). Né, tra i tanti, è stata convocata la Confapi, la confederazione che, a differenza di Confindustria, difende solo le piccole imprese, e conta oltre un milione di associati. Confapi, guarda caso, ha chiesto un rapido ritorno alle urne per dare un governo stabile al Paese. Anche all’interno delle associazioni che hanno proposto di rinviare il voto abbondano le prese di distanza. Il caso più clamoroso è proprio quello di Confindustria, dove Emma Marcegaglia, ormai candidato unico alla successione di Luca Cordero di Montezemolo, ha detto che le riforme si potranno fare pure dopo le elezioni. Insomma, più che un vero blocco sociale, quello evocato dal presidente del Senato sembra il club degli amici del governicchio. Chiamare in causa solo loro per poi dire, come ha fatto ieri Marini, che la «totalità degli orientamenti» delle forze sociali è con lui, è facile e ridicolo allo stesso tempo.
© Libero. Pubblicato il 2 febbraio 2008.
Update. Come noto, nel frattempo, Montezemolo, nel suo colloquio con Marini, ha fatto marcia indietro: «Se non ci sono le condizioni per lunedì o martedì, e noi crediamo che non ci siano, non perdiamo tempo». Marini è messo sempre peggio. Si va al voto.
Se perdiamo non vale. Così, storpiando Julio Iglesias, le macerie dell’Unione rotolano verso quella che si preannuncia come una batosta senza precedenti. Sono a picco nei sondaggi, anche in quelli dei quotidiani amici: secondo Repubblica, nell’ipotesi più plausibile, quella che vede il centrosinistra diviso e la Cdl candidarsi unita, il centrodestra conquista il 53,7% dei voti e l’attuale maggioranza arranca a quota 46%. Altre rilevazioni fotografano un divario ancora più ampio e, nelle regioni più popolate del Nord danno il centrosinistra sotto di venti o trenta punti. Sono lacerati al loro interno, assai più di quanto appaia a prima vista. Marco Damilano, sull’Espresso, ha appena raccontato l’applauso da stadio scattato alla fondazione del cinema per Roma quando il Senato ha staccato la spina al governo Prodi: a spellarsi le mani erano i fedelissimi di Goffredo Bettini, il braccio destro di Walter Veltroni. Quanto a Massimo D’Alema, forse annunciando la sua idea di far votare il prima possibile il referendum elettorale intendeva davvero mettere in crisi l’opposizione. Ma l’unico risultato che ha raggiunto è stato convincere Fausto Bertinotti a dichiarare chiusa la legislatura. Niente di strano, insomma, se la nuova linea di difesa che si sono scelti D’Alema e i suoi fidati dà già per scontata la sconfitta alle urne: il prossimo parlamento, sostengono costoro, sarà illegittimo.
L’appiglio è stato fornito dalla Corte costituzionale. La quale nei giorni scorsi, dichiarando ammissibile il referendum di Mario Segni e Giovanni Guzzetta, ha detto che l’attuale legge elettorale è «carente», poiché assegna il premio di maggioranza alla coalizione vincente indipendentemente dal raggiungimento di una quota minima di voti. Dentro al Pd non aspettavano altro. Il ministro degli Esteri ha spiegato, in una lettera al Corriere della Sera, che «le carenze e le incongruenze della legge elettorale gettano un’ombra sulla sua legittimità costituzionale». Il suo fedelissimo Nicola Latorre, parlando al Manifesto, ha minacciato un ricorso subito dopo le elezioni. Il presidente dei senatori del Pd, Anna Finocchiaro, ha fatto lo stesso sul Sole-24 Ore: «Se venisse presentato un ricorso alla Consulta, è probabile che la Corte dichiarerebbe incostituzionale la legge. E la conseguenza sarebbe la fine della legislatura». Con la scusa di voler convincere Berlusconi ad accettare il governo Marini, gli si fa capire che, se non cede, a vittoria ottenuta gli scateneranno contro i giudici costituzionali.
Abituato ai magistrati del pool di Milano, Berlusconi non si è scomposto. Sia perché gli avvertimenti del Pd non hanno solidi fondamenti giuridici (come spiega bene in queste pagine il costituzionalista Nicolò Zanon). Sia perché le ragioni dei suoi avversari sono portate avanti in modo dilettantesco. Lo stesso D’Alema sostiene che, piuttosto che andare al voto subito con la legge in vigore, è meglio far votare prima il referendum. Peccato che, se si vuole dare retta alla Consulta, come lui dice di voler fare, la legge elettorale referendaria sia ancora più «carente» di quella attuale, poiché assegna il premio di maggioranza non alla coalizione che prende più voti, ma al singolo partito. Se voleva atteggiarsi a costituzionalista, Baffino doveva studiare meglio la pratica.
Anche Franco Marini ci mette del suo. Stamattina incontrerà i vertici di Confindustria e di altre associazioni datoriali. Poi sarà il turno dei sindacati. Gli agiografi di Marini ce la stanno vendendo come una mossa astuta, partorita dalla mente acuta del lupo marsicano, vecchio sindacalista. In realtà il suo è un gesto contraddittorio, che sconfessa quello che lo stesso Marini e Giorgio Napolitano hanno detto in questi giorni. Il presidente della Repubblica aveva spiegato che quello di Marini era un «mandato finalizzato a verificare la possibilità di riformare la legge elettorale». Ma questa è materia che riguarda solo le forze politiche e il Parlamento. Imprenditori e sindacati non c’entrano nulla. Certo, hanno interesse ad avere una legge elettorale che dia vita a governi stabili. Ma lo stesso interesse ce l’hanno, ad esempio, i proprietari d’immobili, che in Italia sono milioni. Eppure nessuno ha invitato i rappresentanti di Confedilizia. Ed è difficile dare torto al Forum delle Famiglie quando chiede a Marini di essere convocato «al pari di altre componenti sociali».
Diciamo allora che l’ex leader della Cisl sta cercando di capire se esistono margini per varare un “governo della concertazione”, con obiettivi più ampi di quelli dichiarati. Sapendo di non avere una maggioranza politica e probabilmente, al Senato, nemmeno una maggioranza numerica, prova ad accreditare il suo governo davanti a grandi imprese e sindacati come l’esecutivo delle riforme condivise, col quale un po’ tutti avranno qualcosa da guadagnare. Per poi mettere Berlusconi al bivio: sfidare un vasto blocco d’interessi (e i suoi organi d’informazione) o chinare il capo.
Ma il trucco, anche in questo caso, è pacchiano. Marini non ha convocato tutte le parti sociali. Abi e Ania, le due grandi associazioni che rappresentano banche e assicurazioni, pur essendo state interpellate dalle altre hanno scelto di non firmare l’appello. E Marini non le ha chiamate (la gaffe è tale che potrebbe ripensarci). Né, tra i tanti, è stata convocata la Confapi, la confederazione che, a differenza di Confindustria, difende solo le piccole imprese, e conta oltre un milione di associati. Confapi, guarda caso, ha chiesto un rapido ritorno alle urne per dare un governo stabile al Paese. Anche all’interno delle associazioni che hanno proposto di rinviare il voto abbondano le prese di distanza. Il caso più clamoroso è proprio quello di Confindustria, dove Emma Marcegaglia, ormai candidato unico alla successione di Luca Cordero di Montezemolo, ha detto che le riforme si potranno fare pure dopo le elezioni. Insomma, più che un vero blocco sociale, quello evocato dal presidente del Senato sembra il club degli amici del governicchio. Chiamare in causa solo loro per poi dire, come ha fatto ieri Marini, che la «totalità degli orientamenti» delle forze sociali è con lui, è facile e ridicolo allo stesso tempo.
© Libero. Pubblicato il 2 febbraio 2008.
Update. Come noto, nel frattempo, Montezemolo, nel suo colloquio con Marini, ha fatto marcia indietro: «Se non ci sono le condizioni per lunedì o martedì, e noi crediamo che non ci siano, non perdiamo tempo». Marini è messo sempre peggio. Si va al voto.