L'errore di Casini
di Fausto Carioti
«Appoggio con forza l’idea di un partito dei moderati italiani da creare entro l’autunno per dare tempestiva risposta di discontinuità ai nostri elettori». Era l’agosto del 2005 e Pier Ferdinando Casini parlava così. Da allora sono cambiate molte cose e tutti i personaggi sulla scena - mica solo lui - hanno avuto modo di smentire se stessi a più riprese. Una cosa, però, non è cambiata: la voglia degli elettori di avere un sistema politico più semplice e chiaro. Tra gli elettori del centrodestra questo desiderio è diventato più forte dopo la decisione di Walter Veltroni di far scendere in campo da solo, senza alleati, il suo Partito democratico. Proprio per questo, la scelta annunciata ieri dal leader dell’Udc appare incomprensibile.
Dicendo «no» all’offerta di entrare nella lista unica con Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini, primo passo decisivo verso la creazione di un nuovo soggetto politico, Casini ha rinnegato quattordici anni di percorso compiuto in sostanziale coerenza accanto agli altri partiti del centrodestra. Lui stesso, del resto, pochi giorni fa aveva definito «terra di nessuno» quella nella quale si erano andati a infilare Bruno Tabacci e Mario Baccini, appena usciti dall’Udc per candidarsi da soli, lontani dagli alleati di sempre. Ora, in mezzo alla terra di nessuno, a inseguire gli scissionisti del suo partito, c’è proprio lui.
Perché l’ha fatto? Di sicuro, a Casini non è piaciuto il metodo. Quello di Berlusconi gli è apparso come un diktat, una sorta di “prendere o lasciare”. Avrebbe voluto essere corteggiato ed avere voce in capitolo sulla nascita della nuova creatura. In altri tempi, avrebbe avuto ragione lui. Ma ora le regole sono cambiate. La libertà dal condizionamento dei piccoli partiti è il grande regalo che Veltroni, scegliendo di far correre da solo il suo partito, ha fatto a Berlusconi. Un tesoro che il Cavaliere ha tutta l’intenzione di capitalizzare. E l’Udc - che si è presa qualche giorno di tempo per dare una risposta definitiva - rischia di raddoppiare l’errore se pensa che da qui al 10 marzo, quando dovranno essere presentate le liste, Berlusconi ammorbidirà la sua posizione. Al contrario: né in Forza Italia né in An hanno intenzione di fare compromessi per recuperare l’Udc. Operazione che costringerebbe i due partiti più grandi a rinunciare a parecchi deputati, e che secondo chi sta facendo i conti non cambierebbe di molto l’esito della partita per il Senato, dove il premio di maggioranza è assegnato su base regionale.
Casini sembra anche convinto che ci sia spazio per un progetto centrista autonomo dai due schieramenti. I sondaggisti non ne sono sicuri. Il centro, spiegano, ormai se lo sono pappato Berlusconi e il Partito democratico. Quelli più cattivi accreditano all’Udc percentuali di voto vicine al 3%: siccome la soglia di sbarramento alla Camera, per i partiti non coalizzati, è del 4%, Casini e i suoi sarebbero condannati a guardare le sedute di Montecitorio dal televisore di casa. E anche se questa eventualità, grazie al probabile recupero dei transfughi della Rosa Bianca e a qualche altra alleanza conclusa in corsa, potrebbe essere scongiurata, il semplice dubbio è sufficiente a indurre più di un esponente dell’Udc a valutare se sia meglio restare o seguire le orme di Carlo Giovanardi, entrato nel listone berlusconiano.
Anche l’ipotesi che ricorre più spesso nei sogni dei centristi, quella di un Senato ingestibile nel quale i senatori moderati possano fare da ago della bilancia, appare irrealistica. Una lista che raggruppasse i centristi dell’Udc, la Rosa Bianca e l’Udeur (se l’operazione di riaccasamento di Clemente Mastella con Berlusconi non dovesse andare in porto) potrebbe superare la soglia di sbarramento prevista per palazzo Madama, pari all’8%, solo in Veneto, nel Lazio e in alcune regioni del Sud. Operazione tutta in salita, dunque. Che comunque andasse a finire non darebbe frutti: se nella prossima legislatura si faranno le grandi intese, non sarà per qualche manovra centrista, ma perché Berlusconi e Veltroni stringeranno un accordo sopra le teste di tutti gli altri.
Chi tutto questo l’ha capito benissimo è Luca Cordero di Montezemolo. Su di lui sia Casini sia i transfughi del suo partito contavano per creare un partito moderato con forte appeal nei confronti degli elettori. Ma era un’idea ingenua: il presidente di Confindustria è uno che si farebbe problemi a candidarsi in un partito che vale il cinquanta per cento dei voti, perché non sopporta l’idea di avere contro metà del Paese. Figuriamoci cosa può pensare di un progetto politico che punta a percentuali a una cifra, nel quale manco gli toccherebbe il ruolo di numero uno. Così oggi, sul Sole-24 Ore, Luca Cordero ribadisce che ad accettare simili offerte non ci pensa proprio. E per Casini, alla fine, vale quello che lui stesso, pochi giorni fa, diceva di Tabacci: «È un uomo intelligente, ma confonde i desideri con la realtà».
© Libero. Pubblicato il 9 febbraio 2008.
«Appoggio con forza l’idea di un partito dei moderati italiani da creare entro l’autunno per dare tempestiva risposta di discontinuità ai nostri elettori». Era l’agosto del 2005 e Pier Ferdinando Casini parlava così. Da allora sono cambiate molte cose e tutti i personaggi sulla scena - mica solo lui - hanno avuto modo di smentire se stessi a più riprese. Una cosa, però, non è cambiata: la voglia degli elettori di avere un sistema politico più semplice e chiaro. Tra gli elettori del centrodestra questo desiderio è diventato più forte dopo la decisione di Walter Veltroni di far scendere in campo da solo, senza alleati, il suo Partito democratico. Proprio per questo, la scelta annunciata ieri dal leader dell’Udc appare incomprensibile.
Dicendo «no» all’offerta di entrare nella lista unica con Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini, primo passo decisivo verso la creazione di un nuovo soggetto politico, Casini ha rinnegato quattordici anni di percorso compiuto in sostanziale coerenza accanto agli altri partiti del centrodestra. Lui stesso, del resto, pochi giorni fa aveva definito «terra di nessuno» quella nella quale si erano andati a infilare Bruno Tabacci e Mario Baccini, appena usciti dall’Udc per candidarsi da soli, lontani dagli alleati di sempre. Ora, in mezzo alla terra di nessuno, a inseguire gli scissionisti del suo partito, c’è proprio lui.
Perché l’ha fatto? Di sicuro, a Casini non è piaciuto il metodo. Quello di Berlusconi gli è apparso come un diktat, una sorta di “prendere o lasciare”. Avrebbe voluto essere corteggiato ed avere voce in capitolo sulla nascita della nuova creatura. In altri tempi, avrebbe avuto ragione lui. Ma ora le regole sono cambiate. La libertà dal condizionamento dei piccoli partiti è il grande regalo che Veltroni, scegliendo di far correre da solo il suo partito, ha fatto a Berlusconi. Un tesoro che il Cavaliere ha tutta l’intenzione di capitalizzare. E l’Udc - che si è presa qualche giorno di tempo per dare una risposta definitiva - rischia di raddoppiare l’errore se pensa che da qui al 10 marzo, quando dovranno essere presentate le liste, Berlusconi ammorbidirà la sua posizione. Al contrario: né in Forza Italia né in An hanno intenzione di fare compromessi per recuperare l’Udc. Operazione che costringerebbe i due partiti più grandi a rinunciare a parecchi deputati, e che secondo chi sta facendo i conti non cambierebbe di molto l’esito della partita per il Senato, dove il premio di maggioranza è assegnato su base regionale.
Casini sembra anche convinto che ci sia spazio per un progetto centrista autonomo dai due schieramenti. I sondaggisti non ne sono sicuri. Il centro, spiegano, ormai se lo sono pappato Berlusconi e il Partito democratico. Quelli più cattivi accreditano all’Udc percentuali di voto vicine al 3%: siccome la soglia di sbarramento alla Camera, per i partiti non coalizzati, è del 4%, Casini e i suoi sarebbero condannati a guardare le sedute di Montecitorio dal televisore di casa. E anche se questa eventualità, grazie al probabile recupero dei transfughi della Rosa Bianca e a qualche altra alleanza conclusa in corsa, potrebbe essere scongiurata, il semplice dubbio è sufficiente a indurre più di un esponente dell’Udc a valutare se sia meglio restare o seguire le orme di Carlo Giovanardi, entrato nel listone berlusconiano.
Anche l’ipotesi che ricorre più spesso nei sogni dei centristi, quella di un Senato ingestibile nel quale i senatori moderati possano fare da ago della bilancia, appare irrealistica. Una lista che raggruppasse i centristi dell’Udc, la Rosa Bianca e l’Udeur (se l’operazione di riaccasamento di Clemente Mastella con Berlusconi non dovesse andare in porto) potrebbe superare la soglia di sbarramento prevista per palazzo Madama, pari all’8%, solo in Veneto, nel Lazio e in alcune regioni del Sud. Operazione tutta in salita, dunque. Che comunque andasse a finire non darebbe frutti: se nella prossima legislatura si faranno le grandi intese, non sarà per qualche manovra centrista, ma perché Berlusconi e Veltroni stringeranno un accordo sopra le teste di tutti gli altri.
Chi tutto questo l’ha capito benissimo è Luca Cordero di Montezemolo. Su di lui sia Casini sia i transfughi del suo partito contavano per creare un partito moderato con forte appeal nei confronti degli elettori. Ma era un’idea ingenua: il presidente di Confindustria è uno che si farebbe problemi a candidarsi in un partito che vale il cinquanta per cento dei voti, perché non sopporta l’idea di avere contro metà del Paese. Figuriamoci cosa può pensare di un progetto politico che punta a percentuali a una cifra, nel quale manco gli toccherebbe il ruolo di numero uno. Così oggi, sul Sole-24 Ore, Luca Cordero ribadisce che ad accettare simili offerte non ci pensa proprio. E per Casini, alla fine, vale quello che lui stesso, pochi giorni fa, diceva di Tabacci: «È un uomo intelligente, ma confonde i desideri con la realtà».
© Libero. Pubblicato il 9 febbraio 2008.