Il tiranno della Cia che odiava gli omosessuali
di Fausto Carioti
«La historia me absolverá», disse Fidel Alejandro Castro Ruz, ventisettenne, il 16 ottobre del 1953, concludendo l'arringa al processo che lo vedeva imputato per il suo primo (goffo) tentativo di colpo di stato ai danni del regime di Fulgencio Batista. Si vedrà. Di sicuro storici e giornalisti, per non parlare della quasi totalità della élite culturale occidentale, inclusi i tre quarti di Hollywood, sinora sono stati molto indulgenti con il tiranno che ieri ha dato l'addio definitivo al potere. Di più: in molti casi hanno fatto a gara a chi chiudeva meglio gli occhi dinanzi agli orrori dell'Havana. Da brave cheerleaders, hanno sgomitato per essere in prima fila nel dipingere il ritratto del combattente romantico e dello statista coraggioso. Sono finiti in fondo ai cassetti, così, aspetti importanti del caudillo rosso. Il cinismo di Fidel, ad esempio, l'uso strumentale che fece dell'ideologia comunista e del suo rapporto con gli Stati Uniti, gli furono indispensabili per la conquista e il consolidamento del potere. Così come la repressione brutale con la quale, ancora oggi, schiaccia ogni forma di dissidenza e calpesta (lui, icona della sinistra) gli omosessuali dell'isola: altro aspetto - chissà perché - ignorato.
Castro si professò comunista e nemico giurato degli Stati Uniti solo quando ebbe bisogno di dare cemento ideologico, militare ed economico alla sua dittatura. Sino ad allora, non solo si era guardato bene dall'inimicarsi Washington, ma aveva fatto aperta professione di anticomunismo e si era messo in tasca - senza alcun apparente rimorso nei confronti di Karl Marx - i finanziamenti che arrivavano dalla Cia. Batista fuggì da Cuba il 31 dicembre del 1958, e il suo rivale Castro divenne primo ministro il successivo 16 febbraio. Ma fino al luglio del 1960 si guardò bene dall'accettare l'abbraccio dei sovietici. Bisogna attendere il 16 aprile del 1961, durante la crisi della Baia dei porci con gli Stati Uniti, per sentirgli dire che la sua era stata una «rivoluzione socialista». Lui stesso si dichiarò pubblicamente «comunista» solo nel dicembre di quell'anno. Forse, sino ad allora, Castro aveva finto di essere ciò che non era. Oppure fu semplicemente abile a scegliere, al momento opportuno, l'ideologia che più serviva alla sua causa. Non ha importanza: ciò che conta sono le cose che diceva, e il fatto che gli americani le bevessero tutte.
Del resto, già prima che Castro prendesse il potere, il dipartimento di Stato di Washington aveva messo un embargo sulle forniture di armi al governo di Batista ed imposto al riluttante ambasciatore all'Havana, Earl T. Smith (uno dei pochi che aveva capito dove sarebbe andato a parare Castro) di far sapere a Batista che egli «non poteva più godere dell'appoggio del governo degli Stati Uniti». Come da consuetudine, gli americani misero anche mano al portafoglio. Con generosità. Tad Szulc, il reporter del New York Times autore della biografia più nota di Fidel Castro (e tutt'altro che ostile al dittatore) scrive che «tra ottobre e novembre 1957 e la metà del 1958, la Cia versò non meno di cinquantamila dollari a una mezza dozzina o più di membri importanti del Movimento 26 luglio», ovvero l'organizzazione rivoluzionaria di Castro. «La cifra era piuttosto grossa, rispetto almeno a quanto era riuscito a raccogliere da solo il Movimento a Cuba». Niente di strano, quindi, che la seconda nazione a riconoscere il governo nato dalla rivoluzione castrista siano stati proprio gli Stati Uniti: Washington accreditò la "Cuba revolucionaria" il 7 gennaio del 1959. Mosca seguirà tre giorni dopo. «Siamo stati noi a mettere al potere Castro», dirà Smith, dinanzi al Senato americano, nel 1961.
Fidel, diventato primo ministro, si guardò bene dal deludere i suoi fan. Nella primavera del '59 andò in viaggio ufficiale negli Stati Uniti. In quell'occasione, scrive ancora il suo biografo, «Fidel disse tutto quello che gli americani volevano sentirsi dire. Circa il comunismo ripetè, ogni volta che gli veniva chiesta la sua opinione, che "noi non siamo comunisti", che se per caso nel suo governo c'erano dei comunisti "la loro influenza è nulla", e che lui non approvava il comunismo». Già che c'era, annunciò anche che entro quattro anni a Cuba si sarebbero avute libere elezioni. I gonzi gli credettero. «Castro non solo non è comunista, ma è un convinto nemico del comunismo», disse il responsabile della Cia per l'America Latina, Gerry Drecher, dopo aver incontrato il leader cubano. «Io e il mio staff eravamo tutti "fidelisti"», ha ammesso Robert Reynolds, che fu "specialista" della Cia per la rivoluzione cubana dal 1957 al 1960.
Preso il potere in modo tanto spregiudicato, Castro non si è fatto scrupoli a usarlo nel modo più duro. Il progetto di ricerca Cuba Archive, che da anni conta le vittime accertate della rivoluzione cubana, ha calcolato, sino ad oggi, in 8.096 il numero delle persone fatte uccidere dal suo governo. Nel rapporto 2007 di Amnesty International si legge che «69 prigionieri di coscienza continuano a essere detenuti per le loro idee o attività politiche non violente». Quando un gruppo di cattolici cubani, attenendosi a quanto scritto nella stessa costituzione dell'isola, ha proposto un referendum per introdurre le libertà politiche e i diritti civili negati, il dittatore ha reagito da par suo: ha respinto la richiesta - nonostante le 10.000 firme necessarie per far svolgere il referendum fossero state raccolte - e incarcerato, nel marzo del 2003, 75 autori dell'iniziativa. Uno di costoro, Antonio Díaz Sánchez, ha fatto uscire da Cuba una lettera in cui racconta le condizioni dei detenuti nelle carceri castriste, dove i tentativi di suicidio sono all'ordine del giorno: «Quando un prigioniero attenta alla propria salute, non lo fa con l'intenzione di richiamare l'attenzione dell'opinione pubblica, dal momento che a Cuba le prigioni sono buchi neri dove solo i prigionieri politici sono capaci di raccontare quello che vi succede; piuttosto, lo fa cercando un mezzo per porre fine a tanta agonia e martirio, che trasformano la vita in qualcosa privo di senso».
Un discorso a parte merita il trattamento riservato agli omosessuali. Per loro Castro ha fatto costruire le Umap, Unità militari di aiuto alla produzione. Il giornalista Héctor Maceda (uno dei 75 messi in carcere nel marzo del 2003) ha calcolato in trentamila il numero dei giovani - in gran parte omosessuali, ma anche seminaristi, rockettari e altri "disadattati" del paradiso cubano - costretti a "redimersi" in questi lager circondati da filo spinato elettrificato. «La missione fondamentale delle Umap è fare in modo che questi giovani modifichino la loro attitudine, educandosi, formandosi, salvandosi», spiegò Castro a Granma, l'organo ufficiale del regime, nel 1966. Altra porcheria che tanti a sinistra fingono di non vedere.
Il miglior epitaffio del tiranno al tramonto porta la firma dello scrittore cattolico americano George Weigel, biografo di Karol Wojtyla: «Castro non è un omicida di massa della stessa categoria di Stalin, Hitler, Pol Pot e Mao Tse-tung, ma è comunque un dittatore assassino. Le storie delle condizioni vili e umilianti in cui tiene i prigionieri politici non debbono essere dimenticate. Né le ingiustizie del precedente regime cubano debbono essere usate come scuse per questo uomo malvagio che ha ridotto in povertà una nazione orgogliosa e vitale».
© Libero. Pubblicato il 20 febbraio 2008.
«La historia me absolverá», disse Fidel Alejandro Castro Ruz, ventisettenne, il 16 ottobre del 1953, concludendo l'arringa al processo che lo vedeva imputato per il suo primo (goffo) tentativo di colpo di stato ai danni del regime di Fulgencio Batista. Si vedrà. Di sicuro storici e giornalisti, per non parlare della quasi totalità della élite culturale occidentale, inclusi i tre quarti di Hollywood, sinora sono stati molto indulgenti con il tiranno che ieri ha dato l'addio definitivo al potere. Di più: in molti casi hanno fatto a gara a chi chiudeva meglio gli occhi dinanzi agli orrori dell'Havana. Da brave cheerleaders, hanno sgomitato per essere in prima fila nel dipingere il ritratto del combattente romantico e dello statista coraggioso. Sono finiti in fondo ai cassetti, così, aspetti importanti del caudillo rosso. Il cinismo di Fidel, ad esempio, l'uso strumentale che fece dell'ideologia comunista e del suo rapporto con gli Stati Uniti, gli furono indispensabili per la conquista e il consolidamento del potere. Così come la repressione brutale con la quale, ancora oggi, schiaccia ogni forma di dissidenza e calpesta (lui, icona della sinistra) gli omosessuali dell'isola: altro aspetto - chissà perché - ignorato.
Castro si professò comunista e nemico giurato degli Stati Uniti solo quando ebbe bisogno di dare cemento ideologico, militare ed economico alla sua dittatura. Sino ad allora, non solo si era guardato bene dall'inimicarsi Washington, ma aveva fatto aperta professione di anticomunismo e si era messo in tasca - senza alcun apparente rimorso nei confronti di Karl Marx - i finanziamenti che arrivavano dalla Cia. Batista fuggì da Cuba il 31 dicembre del 1958, e il suo rivale Castro divenne primo ministro il successivo 16 febbraio. Ma fino al luglio del 1960 si guardò bene dall'accettare l'abbraccio dei sovietici. Bisogna attendere il 16 aprile del 1961, durante la crisi della Baia dei porci con gli Stati Uniti, per sentirgli dire che la sua era stata una «rivoluzione socialista». Lui stesso si dichiarò pubblicamente «comunista» solo nel dicembre di quell'anno. Forse, sino ad allora, Castro aveva finto di essere ciò che non era. Oppure fu semplicemente abile a scegliere, al momento opportuno, l'ideologia che più serviva alla sua causa. Non ha importanza: ciò che conta sono le cose che diceva, e il fatto che gli americani le bevessero tutte.
Del resto, già prima che Castro prendesse il potere, il dipartimento di Stato di Washington aveva messo un embargo sulle forniture di armi al governo di Batista ed imposto al riluttante ambasciatore all'Havana, Earl T. Smith (uno dei pochi che aveva capito dove sarebbe andato a parare Castro) di far sapere a Batista che egli «non poteva più godere dell'appoggio del governo degli Stati Uniti». Come da consuetudine, gli americani misero anche mano al portafoglio. Con generosità. Tad Szulc, il reporter del New York Times autore della biografia più nota di Fidel Castro (e tutt'altro che ostile al dittatore) scrive che «tra ottobre e novembre 1957 e la metà del 1958, la Cia versò non meno di cinquantamila dollari a una mezza dozzina o più di membri importanti del Movimento 26 luglio», ovvero l'organizzazione rivoluzionaria di Castro. «La cifra era piuttosto grossa, rispetto almeno a quanto era riuscito a raccogliere da solo il Movimento a Cuba». Niente di strano, quindi, che la seconda nazione a riconoscere il governo nato dalla rivoluzione castrista siano stati proprio gli Stati Uniti: Washington accreditò la "Cuba revolucionaria" il 7 gennaio del 1959. Mosca seguirà tre giorni dopo. «Siamo stati noi a mettere al potere Castro», dirà Smith, dinanzi al Senato americano, nel 1961.
Fidel, diventato primo ministro, si guardò bene dal deludere i suoi fan. Nella primavera del '59 andò in viaggio ufficiale negli Stati Uniti. In quell'occasione, scrive ancora il suo biografo, «Fidel disse tutto quello che gli americani volevano sentirsi dire. Circa il comunismo ripetè, ogni volta che gli veniva chiesta la sua opinione, che "noi non siamo comunisti", che se per caso nel suo governo c'erano dei comunisti "la loro influenza è nulla", e che lui non approvava il comunismo». Già che c'era, annunciò anche che entro quattro anni a Cuba si sarebbero avute libere elezioni. I gonzi gli credettero. «Castro non solo non è comunista, ma è un convinto nemico del comunismo», disse il responsabile della Cia per l'America Latina, Gerry Drecher, dopo aver incontrato il leader cubano. «Io e il mio staff eravamo tutti "fidelisti"», ha ammesso Robert Reynolds, che fu "specialista" della Cia per la rivoluzione cubana dal 1957 al 1960.
Preso il potere in modo tanto spregiudicato, Castro non si è fatto scrupoli a usarlo nel modo più duro. Il progetto di ricerca Cuba Archive, che da anni conta le vittime accertate della rivoluzione cubana, ha calcolato, sino ad oggi, in 8.096 il numero delle persone fatte uccidere dal suo governo. Nel rapporto 2007 di Amnesty International si legge che «69 prigionieri di coscienza continuano a essere detenuti per le loro idee o attività politiche non violente». Quando un gruppo di cattolici cubani, attenendosi a quanto scritto nella stessa costituzione dell'isola, ha proposto un referendum per introdurre le libertà politiche e i diritti civili negati, il dittatore ha reagito da par suo: ha respinto la richiesta - nonostante le 10.000 firme necessarie per far svolgere il referendum fossero state raccolte - e incarcerato, nel marzo del 2003, 75 autori dell'iniziativa. Uno di costoro, Antonio Díaz Sánchez, ha fatto uscire da Cuba una lettera in cui racconta le condizioni dei detenuti nelle carceri castriste, dove i tentativi di suicidio sono all'ordine del giorno: «Quando un prigioniero attenta alla propria salute, non lo fa con l'intenzione di richiamare l'attenzione dell'opinione pubblica, dal momento che a Cuba le prigioni sono buchi neri dove solo i prigionieri politici sono capaci di raccontare quello che vi succede; piuttosto, lo fa cercando un mezzo per porre fine a tanta agonia e martirio, che trasformano la vita in qualcosa privo di senso».
Un discorso a parte merita il trattamento riservato agli omosessuali. Per loro Castro ha fatto costruire le Umap, Unità militari di aiuto alla produzione. Il giornalista Héctor Maceda (uno dei 75 messi in carcere nel marzo del 2003) ha calcolato in trentamila il numero dei giovani - in gran parte omosessuali, ma anche seminaristi, rockettari e altri "disadattati" del paradiso cubano - costretti a "redimersi" in questi lager circondati da filo spinato elettrificato. «La missione fondamentale delle Umap è fare in modo che questi giovani modifichino la loro attitudine, educandosi, formandosi, salvandosi», spiegò Castro a Granma, l'organo ufficiale del regime, nel 1966. Altra porcheria che tanti a sinistra fingono di non vedere.
Il miglior epitaffio del tiranno al tramonto porta la firma dello scrittore cattolico americano George Weigel, biografo di Karol Wojtyla: «Castro non è un omicida di massa della stessa categoria di Stalin, Hitler, Pol Pot e Mao Tse-tung, ma è comunque un dittatore assassino. Le storie delle condizioni vili e umilianti in cui tiene i prigionieri politici non debbono essere dimenticate. Né le ingiustizie del precedente regime cubano debbono essere usate come scuse per questo uomo malvagio che ha ridotto in povertà una nazione orgogliosa e vitale».
© Libero. Pubblicato il 20 febbraio 2008.