Obama e gli altri: previsioni un tanto al chilo
In Italia si sta dando molta enfasi alle elezioni presidenziali americane. Giustificatissima, per carità: in gioco c'è la guida della più grande e potente democrazia del pianeta. L'impressione, però, è che, a destra come a sinistra, si stia seguendo la contesa con una forte carica d'ingenuità. L'ipotesi che vinca un candidato democratico (i cui connotati assomigliano sempre più a quelli di Barack Hussein Obama) sembra autorizzare wet dreams a ripetizione nella sinistra italiana, nel cui immaginario un po' sempliciotto Obama è una sorta, se non di un Fidel Castro, quantomeno di un Simon Bolivar nordamericano. E' l'uomo che cambierà gli Stati Uniti, e con essi il mondo, e lo farà ispirandosi (lui, che nel 1968 aveva sette anni) a ideali assai simili a quelli sessantottini. Analoga previsione - che in questo caso diventa paura - è fatta a destra.
Sbaglierò, ma mi sembra un'idea piuttosto imbecille. Per una lunga serie di motivi, alcuni dei quali provo a riassumere.
Primo. Barak Obama non è Giovanni Russo Spena. Banale dirlo, ma visti gli entusiasmi che la sua corsa sta suscitando sulle colonne del Manifesto e di Liberazione, vale la pena di ricordarlo. La cosa vale, a maggior ragione, per Hillary Rodham Clinton. La dico tutta: il semplice fatto che un candidato, in quanto nero o in quanto donna, debba essere portatore di contenuti politici radicalmente differenti da quelli di un maschio bianco, riesce ad essere ingenua e razzista (o sessista) allo stesso tempo.
Secondo. Gli annunci fatti in campagna elettorale lasciano il tempo che trovano: appena le urne si chiudono inizia tutta un'altra partita, e a comandare stavolta non è più la necessità di creare facili emozioni, ma la realpolitik. Per conferma, chiedere a Michael Moore e agli altri pacifisti americani, poveri illusi i quali credevano che sarebbe bastato affidare la maggioranza della Camera ai democratici per avviare il ritiro delle truppe americane dall'Iraq. Presi i voti, gabbato l'elettore.
Terzo. I margini di discrezionalità in materia di politica interna ed internazionale di cui dispone il presidente degli Stati Uniti sono ampi, ma non certo assoluti. Insomma, chi già intravede inversioni ad "U" da parte di una ipotetica amministrazione democratica, rischia di restare molto deluso. Il rapporto privilegiato con Israele, ad esempio, è una costante della strategia statunitense, che non potrà certo essere rimesso in discussione dall'elezione dell'uno piuttosto che dell'altro candidato. Altro esempio: nessuno dei candidati contesta la necessità di mantenere l'arsenale americano agli attuali livelli di "iperpotenza". Allo stesso modo, il problema dell'approvvigionamento energetico, con le conseguenti tensioni nei confronti dei Paesi fornitori di petrolio, si porrà chiunque sia alla Casa Bianca, e le soluzioni possibili sono pochissime, per non dire obbligate. Dalla questione dell'approvvigionamento energetico derivano le linee guida della politica internazionale. Quanto al multilateralismo, per i democratici può essere un argomento politicamente corretto con cui farsi belli davanti agli europei, ma alla prova dei fatti gli Stati Uniti, chiunque li guidi, hanno sempre deciso per tutti, e di certo non intendono appaltare la sicurezza internazionale (cioè la loro stessa sicurezza) a Paesi che fanno a gara nel tagliare le spese militari. Sul fronte della politica sociale, i vincoli di bilancio limitano i margini d'intervento a una rimodulazione della redistribuzione del reddito: attraverso la quale si può fare molto, certo, ma non quella rivoluzione epocale che qualcuno sogna (o teme). Di certo non in America, dove è chiaro a tutti che il reddito, prima di essere redistribuito, deve essere prodotto, e questo può avvenire solo a certe condizioni.
Quarto. Storicamente, sono stati proprio i presidenti democratici, interventisti per tradizione, quelli che hanno dato più problemi alla sinistra italiana ed europea. Harry S. Truman portò gli Stati Uniti in guerra contro la Corea del Nord. Fu John Fitzgerald Kennedy a dare il via alla guerra del Vietnam, dopo aver annunciato, nel discorso con cui avviò il suo mandato presidenziale: «We shall pay any price, bear any burden, meet any hardship, support any friend, oppose any foe, in order to assure the survival and the success of liberty». Il programma di Kennedy per il Vietnam era, né più né meno, l'esportazione della democrazia in Indocina (nel noto National Security Action Memorandum 52 si legge che «The U.S. objective and concept of operations stated in report are approved: to prevent Communist domination of South Vietnam; to create in that country a viable and increasingly democratic society, and to initiate, on an accelerated basis, a series of mutually supporting actions of a military, political, economic, psychological and covert character designed to achieve this objective»). In tempi più recenti, è toccato a Bill Clinton avviare l'intervento della Nato in Kosovo, spaccando la sinistra italiana nel modo che sappiamo.
Pronto a essere smentito. Tra qualche tempo ne sapremo di più. Ammesso, s'intende, che alla fine vinca il candidato democratico. Cosa tutt'altro che scontata.
Post scriptum. Quasi dimenticavo. Se a vincere le elezioni americane sarà una donna o un nero, non ci sarà proprio nulla da stupirsi. Sarà semplicemente l'ennesima conferma del fatto che quella statunitense è la più grande democrazia della storia, dove chiunque può diventare presidente. E' l'essenza della società aperta.
Sbaglierò, ma mi sembra un'idea piuttosto imbecille. Per una lunga serie di motivi, alcuni dei quali provo a riassumere.
Primo. Barak Obama non è Giovanni Russo Spena. Banale dirlo, ma visti gli entusiasmi che la sua corsa sta suscitando sulle colonne del Manifesto e di Liberazione, vale la pena di ricordarlo. La cosa vale, a maggior ragione, per Hillary Rodham Clinton. La dico tutta: il semplice fatto che un candidato, in quanto nero o in quanto donna, debba essere portatore di contenuti politici radicalmente differenti da quelli di un maschio bianco, riesce ad essere ingenua e razzista (o sessista) allo stesso tempo.
Secondo. Gli annunci fatti in campagna elettorale lasciano il tempo che trovano: appena le urne si chiudono inizia tutta un'altra partita, e a comandare stavolta non è più la necessità di creare facili emozioni, ma la realpolitik. Per conferma, chiedere a Michael Moore e agli altri pacifisti americani, poveri illusi i quali credevano che sarebbe bastato affidare la maggioranza della Camera ai democratici per avviare il ritiro delle truppe americane dall'Iraq. Presi i voti, gabbato l'elettore.
Terzo. I margini di discrezionalità in materia di politica interna ed internazionale di cui dispone il presidente degli Stati Uniti sono ampi, ma non certo assoluti. Insomma, chi già intravede inversioni ad "U" da parte di una ipotetica amministrazione democratica, rischia di restare molto deluso. Il rapporto privilegiato con Israele, ad esempio, è una costante della strategia statunitense, che non potrà certo essere rimesso in discussione dall'elezione dell'uno piuttosto che dell'altro candidato. Altro esempio: nessuno dei candidati contesta la necessità di mantenere l'arsenale americano agli attuali livelli di "iperpotenza". Allo stesso modo, il problema dell'approvvigionamento energetico, con le conseguenti tensioni nei confronti dei Paesi fornitori di petrolio, si porrà chiunque sia alla Casa Bianca, e le soluzioni possibili sono pochissime, per non dire obbligate. Dalla questione dell'approvvigionamento energetico derivano le linee guida della politica internazionale. Quanto al multilateralismo, per i democratici può essere un argomento politicamente corretto con cui farsi belli davanti agli europei, ma alla prova dei fatti gli Stati Uniti, chiunque li guidi, hanno sempre deciso per tutti, e di certo non intendono appaltare la sicurezza internazionale (cioè la loro stessa sicurezza) a Paesi che fanno a gara nel tagliare le spese militari. Sul fronte della politica sociale, i vincoli di bilancio limitano i margini d'intervento a una rimodulazione della redistribuzione del reddito: attraverso la quale si può fare molto, certo, ma non quella rivoluzione epocale che qualcuno sogna (o teme). Di certo non in America, dove è chiaro a tutti che il reddito, prima di essere redistribuito, deve essere prodotto, e questo può avvenire solo a certe condizioni.
Quarto. Storicamente, sono stati proprio i presidenti democratici, interventisti per tradizione, quelli che hanno dato più problemi alla sinistra italiana ed europea. Harry S. Truman portò gli Stati Uniti in guerra contro la Corea del Nord. Fu John Fitzgerald Kennedy a dare il via alla guerra del Vietnam, dopo aver annunciato, nel discorso con cui avviò il suo mandato presidenziale: «We shall pay any price, bear any burden, meet any hardship, support any friend, oppose any foe, in order to assure the survival and the success of liberty». Il programma di Kennedy per il Vietnam era, né più né meno, l'esportazione della democrazia in Indocina (nel noto National Security Action Memorandum 52 si legge che «The U.S. objective and concept of operations stated in report are approved: to prevent Communist domination of South Vietnam; to create in that country a viable and increasingly democratic society, and to initiate, on an accelerated basis, a series of mutually supporting actions of a military, political, economic, psychological and covert character designed to achieve this objective»). In tempi più recenti, è toccato a Bill Clinton avviare l'intervento della Nato in Kosovo, spaccando la sinistra italiana nel modo che sappiamo.
Pronto a essere smentito. Tra qualche tempo ne sapremo di più. Ammesso, s'intende, che alla fine vinca il candidato democratico. Cosa tutt'altro che scontata.
Post scriptum. Quasi dimenticavo. Se a vincere le elezioni americane sarà una donna o un nero, non ci sarà proprio nulla da stupirsi. Sarà semplicemente l'ennesima conferma del fatto che quella statunitense è la più grande democrazia della storia, dove chiunque può diventare presidente. E' l'essenza della società aperta.