Hollywood e i gonzi della sinistra
di Fausto Carioti
Tutto d’un tratto, il coro: «Forza America!». Perché in fondo i nanetti da giardino della sinistra italiana sono creaturine semplici. Sbraitano e digrignano i denti, ma per farseli amici basta regalargli un biglietto del cinema e un pacchetto di pop corn. Nel giro di poche ore l’hanno smessa con il "Blame America First", cioè il prendersela con l’“iperpotenza” americana per ogni cosa che di male accade nel mondo (la guerra, la “omologazione delle idee, la “mercificazione della cultura”, gli “orrori” della globalizzazione) e si sono messi a sventolare la bandierina a stelle e strisce. È bastato che sulla laguna di Venezia sbarcasse quella meravigliosa trappola per gonzi chiamata Hollywood, quintessenza del consumismo quotata a Wall Street. E loro lì, tutti in piedi ad applaudire.
C’era Brian De Palma, che ha presentato un film sullo stupro di una giovane irachena da parte di alcuni soldati americani. Lo ha fatto «per combattere l’invasione ingiustificata dell’Iraq», scrive commosso il Manifesto, imitato da Liberazione. Intervistato, De Palma se la prende con le multinazionali che «censurano» le immagini dei conflitti. La sua sembra comunque una preoccupazione molto relativa: De Palma non ha problemi a far produrre i suoi film da multinazionali come la Disney, che pochi anni fa finanziò e distribuì il suo polpettone fantascientifico “Mission to Mars”. Pecunia non olet, e i registi americani, pur ignorando il latino, il concetto l’hanno ben presente. A proposito: sulla laguna c’era anche George Clooney, che ormai gira più spot che film, ma quando serve torna buono, come ha fatto col Tg1 venerdì sera, per recitare la parte dell’attore impegnato che tira la volata a Walter Veltroni e spara sull’amministrazione Bush. Dalla mostra di Venezia è passato pure Michael Moore, altro film-maker americano bravissimo a mettere assieme politica e portafoglio. Nei giorni scorsi ha presentato un film con cui vorrebbe dimostrare che la sanità cubana è migliore di quella americana. Niente di strano che il regime dell’Havana l’abbia aiutato: tutta pubblicità per la dittatura dei fratelli Castro. Certo, già che c’era Moore avrebbe potuto provare a girare un documentario su come vengono trattate le centinaia di prigionieri politici lasciati a marcire nelle carceri di Fidel, o almeno spendere mezza parola per loro. Ma se ne è guardato bene. Così ha potuto mantenere intatto il suo feeling con la sinistra italiana, rafforzato dai complimenti espressi in pubblico per il governo Prodi.
L’entusiasmo è tale che, sulla scia di Venezia, il Manifesto ha appena dedicato il suo inserto “culturale” proprio agli States, ribattezzati «l’unico paese progressista al mondo». Eppure a tutt’oggi il solo candidato alla presidenza che abbia il giudizio favorevole della maggioranza degli elettori è il repubblicano Rudolph Giuliani, del quale lo stesso quotidiano di via Tomacelli, una settimana fa, scriveva che si muove «con lo stesso cinismo, la stessa superficialità e lo stesso antiintellettualismo che hanno fatto la fortuna in public relation dell’attuale Casa Bianca». Ecco, quest’individuo così rozzo e inqualificabile oggi è visto con favore dal 55% degli americani, mentre contro di lui c’è solo il 32%. Hillary Clinton, beniamina della sinistra italiana, è apprezzata dal 47% degli elettori e disprezzata dal 49%. Come questo sia possibile nell’«unico Paese progressista al mondo» resta un mistero che il quotidiano comunista non scioglie.
La sinistra giustifica il suo improvviso interessamento per gli Stati Uniti con il fatto che oltreoceano qualcosa stia cambiando. Ma non sta cambiando proprio nulla. Piuttosto, è ridicola la visione caricaturale che la sinistra spaccia degli Stati Uniti: quella di un Paese rozzo, privo di dibattito ideologico e culturale, dove i media, controllati dalle grandi corporation, lavorano sotto dettatura della Casa Bianca. È vero invece l’esatto contrario: la polifonia è l’essenza della società americana, perché è nella logica del capitalismo che chiunque abbia un mercato per le sue idee sia libero di venderle. De Palma, Clooney e Moore sono solo gli ultimi arrivati. Come scriveva cinque anni fa il filosofo conservatore francese Jean-François Revel, «i film e i telefilm americani affrontano di petto i “temi della società” spinosi o i temi politici scottanti (il Watergate per esempio), molto più frequentemente e crudamente di quanto faccia la produzione europea. L’idea che in America la letteratura e il cinema sarebbero integralmente votati all’autosoddisfazione del sogno americano dipende dal delirio - o dall’ignoranza che, come quasi sempre nel caso degli Stati Uniti, è volontaria. Detta altrimenti, deriva dalla malafede».
© Libero. Pubblicato il 2 settembre 2007.
Tutto d’un tratto, il coro: «Forza America!». Perché in fondo i nanetti da giardino della sinistra italiana sono creaturine semplici. Sbraitano e digrignano i denti, ma per farseli amici basta regalargli un biglietto del cinema e un pacchetto di pop corn. Nel giro di poche ore l’hanno smessa con il "Blame America First", cioè il prendersela con l’“iperpotenza” americana per ogni cosa che di male accade nel mondo (la guerra, la “omologazione delle idee, la “mercificazione della cultura”, gli “orrori” della globalizzazione) e si sono messi a sventolare la bandierina a stelle e strisce. È bastato che sulla laguna di Venezia sbarcasse quella meravigliosa trappola per gonzi chiamata Hollywood, quintessenza del consumismo quotata a Wall Street. E loro lì, tutti in piedi ad applaudire.
C’era Brian De Palma, che ha presentato un film sullo stupro di una giovane irachena da parte di alcuni soldati americani. Lo ha fatto «per combattere l’invasione ingiustificata dell’Iraq», scrive commosso il Manifesto, imitato da Liberazione. Intervistato, De Palma se la prende con le multinazionali che «censurano» le immagini dei conflitti. La sua sembra comunque una preoccupazione molto relativa: De Palma non ha problemi a far produrre i suoi film da multinazionali come la Disney, che pochi anni fa finanziò e distribuì il suo polpettone fantascientifico “Mission to Mars”. Pecunia non olet, e i registi americani, pur ignorando il latino, il concetto l’hanno ben presente. A proposito: sulla laguna c’era anche George Clooney, che ormai gira più spot che film, ma quando serve torna buono, come ha fatto col Tg1 venerdì sera, per recitare la parte dell’attore impegnato che tira la volata a Walter Veltroni e spara sull’amministrazione Bush. Dalla mostra di Venezia è passato pure Michael Moore, altro film-maker americano bravissimo a mettere assieme politica e portafoglio. Nei giorni scorsi ha presentato un film con cui vorrebbe dimostrare che la sanità cubana è migliore di quella americana. Niente di strano che il regime dell’Havana l’abbia aiutato: tutta pubblicità per la dittatura dei fratelli Castro. Certo, già che c’era Moore avrebbe potuto provare a girare un documentario su come vengono trattate le centinaia di prigionieri politici lasciati a marcire nelle carceri di Fidel, o almeno spendere mezza parola per loro. Ma se ne è guardato bene. Così ha potuto mantenere intatto il suo feeling con la sinistra italiana, rafforzato dai complimenti espressi in pubblico per il governo Prodi.
L’entusiasmo è tale che, sulla scia di Venezia, il Manifesto ha appena dedicato il suo inserto “culturale” proprio agli States, ribattezzati «l’unico paese progressista al mondo». Eppure a tutt’oggi il solo candidato alla presidenza che abbia il giudizio favorevole della maggioranza degli elettori è il repubblicano Rudolph Giuliani, del quale lo stesso quotidiano di via Tomacelli, una settimana fa, scriveva che si muove «con lo stesso cinismo, la stessa superficialità e lo stesso antiintellettualismo che hanno fatto la fortuna in public relation dell’attuale Casa Bianca». Ecco, quest’individuo così rozzo e inqualificabile oggi è visto con favore dal 55% degli americani, mentre contro di lui c’è solo il 32%. Hillary Clinton, beniamina della sinistra italiana, è apprezzata dal 47% degli elettori e disprezzata dal 49%. Come questo sia possibile nell’«unico Paese progressista al mondo» resta un mistero che il quotidiano comunista non scioglie.
La sinistra giustifica il suo improvviso interessamento per gli Stati Uniti con il fatto che oltreoceano qualcosa stia cambiando. Ma non sta cambiando proprio nulla. Piuttosto, è ridicola la visione caricaturale che la sinistra spaccia degli Stati Uniti: quella di un Paese rozzo, privo di dibattito ideologico e culturale, dove i media, controllati dalle grandi corporation, lavorano sotto dettatura della Casa Bianca. È vero invece l’esatto contrario: la polifonia è l’essenza della società americana, perché è nella logica del capitalismo che chiunque abbia un mercato per le sue idee sia libero di venderle. De Palma, Clooney e Moore sono solo gli ultimi arrivati. Come scriveva cinque anni fa il filosofo conservatore francese Jean-François Revel, «i film e i telefilm americani affrontano di petto i “temi della società” spinosi o i temi politici scottanti (il Watergate per esempio), molto più frequentemente e crudamente di quanto faccia la produzione europea. L’idea che in America la letteratura e il cinema sarebbero integralmente votati all’autosoddisfazione del sogno americano dipende dal delirio - o dall’ignoranza che, come quasi sempre nel caso degli Stati Uniti, è volontaria. Detta altrimenti, deriva dalla malafede».
© Libero. Pubblicato il 2 settembre 2007.