Il profeta della linea dura ha trovato chi è più duro di lui
di Fausto Carioti
L’immagine del povero Gianni Rinaldini aggredito e gettato già dal palco da quegli stessi operai che voleva arringare merita di passare alla storia. Come il manifestante milanese che nel 1977, gambe piantate a terra, puntava con due mani la pistola contro la polizia, o come Bettino Craxi bersagliato dalle monetine davanti all’hotel Raphael: è un fotogramma che racchiude la metafora di un’epoca, o almeno di un periodo della nostra storia. La morale dell’istantanea scattata ieri appare chiara: per il sindacato che pretende di essere tutto, partito politico e parte negoziale, di difendere i lavoratori italiani e i profughi palestinesi, di scendere in piazza contro la Fiat, contro palazzo Chigi e contro la missione militare americana in Iraq, di colmare il vuoto lasciato dalla scomparsa del Pci e dei partiti che gli sono succeduti, di aizzare la lotta di classe nella speranza di gestirla e farla pesare sul tavolo delle trattative, non c’è più posto. Con la loro intolleranza, i Cobas che ieri hanno fatto volare già dal palco davanti al Lingotto il segretario generale della Fiom gli hanno ricordato quella che un tempo si chiamava «la centralità della questione operaia». Il profeta della linea dura ha trovato qualcuno più duro di lui. E molto più cattivo.
Nemmeno dopo la strage alle acciaierie Thyssen-Krupp erano volati i pugni. Era il 10 dicembre del 2007, sempre a Torino, in piazza Castello. Allora i 30mila operai incavolati scesi in piazza si erano limitati agli insulti verso Rinaldini e gli altri leader del sindacato: «Buffoni», «Venduti», «Parassiti», «Andate a lavorare». Ieri ci si è spinti laddove neanche gli animi esasperati di allora erano arrivati. Al pari degli altri sindacati, sostengono gli aggressori, la Fiom ha fallito. Si è calata le brache dinanzi alla Fiat. Non da oggi, ma almeno dal 2007, quando avallò il trasferimento (la «deportazione», la chiamano i Cobas) di 316 tute blu da Pomigliano d’Arco a Nola. Prima di Rinaldini ieri se la sono presa con il leader della Fim-Cisl, Giuseppe Farina, al quale hanno dato del «venduto». Dopo hanno attaccato il segretario della Uilm piemontese, Maurizio Peverati, colpito in testa dalla fibbia di una cintura. Gesti ugualmente vergognosi, ma è inutile negare che le botte e gli insulti riservati a Rinaldini hanno un peso politico maggiore.
Perché l’emiliano Rinaldini è il leader di un sindacato, quello dei metalmeccanici della Cgil, che conta 360mila iscritti e presidia fortezze della mitologia operaia come le presse di Mirafiori. E di lui stesso tutto si può dire tranne che sia uno accomodante, un “riformista”. Al contrario: Rinaldini è un fossile vivente, uno che va ancora in giro a parlare del «salario come variabile indipendente». Uno che ha vinto più di un braccio di ferro con il leader della sua confederazione, Guglielmo Epifani, riuscendo anche a spostare a sinistra l’asse dell’intera Cgil. Aveva promesso «nuove iniziative di lotta» il giorno stesso della sua elezione a segretario della Fiom, il 19 aprile del 2002, ed è stato di parola. Anzi, ha fatto di più: convinto che il Pd e il PdL vogliano «tagliare la sinistra», si è messo in testa lui stesso di dare al suo sindacato «un proprio progetto politico e una propria proposta per la società». Con una “piattaforma programmatica”, come si dice dalle sue parti, che ha spaziato ovunque: dalla questione mediorientale alle proteste pacifiste sino ai temi dell’immigrazione. Sembrava che la politica di Rinaldini fosse quella del “nessun nemico a sinistra”, e invece ieri si è capito che non è così.
I rischi, per chi parte animato da simili intenzioni, sono sempre gli stessi: perdersi nell’infinitamente grande tanto da smarrire il punto di partenza (è stato Rinaldini, pochi giorni fa, a scrivere con la sua prosa proto-marxiana che compito del sindacato è «rielaborare proposte, obiettivi e necessari conflitti sociali che abbiano sempre un riferimento di carattere globale ed universale») e trovare qualcuno che ha imparato la tua lezione così bene che smania per applicarla sulla tua pelle. Proprio quello che è accaduto a Rinaldini, vittima di una strategia «conflittuale» che sperava di cavalcare, ma che ha finito per travolgerlo.
© Libero. Pubblicato il 17 maggio 2009.
L’immagine del povero Gianni Rinaldini aggredito e gettato già dal palco da quegli stessi operai che voleva arringare merita di passare alla storia. Come il manifestante milanese che nel 1977, gambe piantate a terra, puntava con due mani la pistola contro la polizia, o come Bettino Craxi bersagliato dalle monetine davanti all’hotel Raphael: è un fotogramma che racchiude la metafora di un’epoca, o almeno di un periodo della nostra storia. La morale dell’istantanea scattata ieri appare chiara: per il sindacato che pretende di essere tutto, partito politico e parte negoziale, di difendere i lavoratori italiani e i profughi palestinesi, di scendere in piazza contro la Fiat, contro palazzo Chigi e contro la missione militare americana in Iraq, di colmare il vuoto lasciato dalla scomparsa del Pci e dei partiti che gli sono succeduti, di aizzare la lotta di classe nella speranza di gestirla e farla pesare sul tavolo delle trattative, non c’è più posto. Con la loro intolleranza, i Cobas che ieri hanno fatto volare già dal palco davanti al Lingotto il segretario generale della Fiom gli hanno ricordato quella che un tempo si chiamava «la centralità della questione operaia». Il profeta della linea dura ha trovato qualcuno più duro di lui. E molto più cattivo.
Nemmeno dopo la strage alle acciaierie Thyssen-Krupp erano volati i pugni. Era il 10 dicembre del 2007, sempre a Torino, in piazza Castello. Allora i 30mila operai incavolati scesi in piazza si erano limitati agli insulti verso Rinaldini e gli altri leader del sindacato: «Buffoni», «Venduti», «Parassiti», «Andate a lavorare». Ieri ci si è spinti laddove neanche gli animi esasperati di allora erano arrivati. Al pari degli altri sindacati, sostengono gli aggressori, la Fiom ha fallito. Si è calata le brache dinanzi alla Fiat. Non da oggi, ma almeno dal 2007, quando avallò il trasferimento (la «deportazione», la chiamano i Cobas) di 316 tute blu da Pomigliano d’Arco a Nola. Prima di Rinaldini ieri se la sono presa con il leader della Fim-Cisl, Giuseppe Farina, al quale hanno dato del «venduto». Dopo hanno attaccato il segretario della Uilm piemontese, Maurizio Peverati, colpito in testa dalla fibbia di una cintura. Gesti ugualmente vergognosi, ma è inutile negare che le botte e gli insulti riservati a Rinaldini hanno un peso politico maggiore.
Perché l’emiliano Rinaldini è il leader di un sindacato, quello dei metalmeccanici della Cgil, che conta 360mila iscritti e presidia fortezze della mitologia operaia come le presse di Mirafiori. E di lui stesso tutto si può dire tranne che sia uno accomodante, un “riformista”. Al contrario: Rinaldini è un fossile vivente, uno che va ancora in giro a parlare del «salario come variabile indipendente». Uno che ha vinto più di un braccio di ferro con il leader della sua confederazione, Guglielmo Epifani, riuscendo anche a spostare a sinistra l’asse dell’intera Cgil. Aveva promesso «nuove iniziative di lotta» il giorno stesso della sua elezione a segretario della Fiom, il 19 aprile del 2002, ed è stato di parola. Anzi, ha fatto di più: convinto che il Pd e il PdL vogliano «tagliare la sinistra», si è messo in testa lui stesso di dare al suo sindacato «un proprio progetto politico e una propria proposta per la società». Con una “piattaforma programmatica”, come si dice dalle sue parti, che ha spaziato ovunque: dalla questione mediorientale alle proteste pacifiste sino ai temi dell’immigrazione. Sembrava che la politica di Rinaldini fosse quella del “nessun nemico a sinistra”, e invece ieri si è capito che non è così.
I rischi, per chi parte animato da simili intenzioni, sono sempre gli stessi: perdersi nell’infinitamente grande tanto da smarrire il punto di partenza (è stato Rinaldini, pochi giorni fa, a scrivere con la sua prosa proto-marxiana che compito del sindacato è «rielaborare proposte, obiettivi e necessari conflitti sociali che abbiano sempre un riferimento di carattere globale ed universale») e trovare qualcuno che ha imparato la tua lezione così bene che smania per applicarla sulla tua pelle. Proprio quello che è accaduto a Rinaldini, vittima di una strategia «conflittuale» che sperava di cavalcare, ma che ha finito per travolgerlo.
© Libero. Pubblicato il 17 maggio 2009.