I morti della Saras e quelli della Thyssen
di Fausto Carioti
Che i padroni non fossero tutti uguali è roba nota. Alcuni sono «a prescindere» più buoni degli altri, anche se il loro stomaco può contare su una voluminosa matassa di pelo. Ma ieri si è scoperto che pure i morti sul lavoro non sono tutti uguali. Certi - come quelli che nel dicembre del 2007 morirono nel rogo torinese della Thyssen - chiedono giustizia immediata, cioè vendetta: sangue chiama sangue. Altre vittime ispirano invece ragionamenti più pacati, decisioni a freddo e procedure molto più garantiste. È il caso dei tre lavoratori della cooperativa di manutenzione Comesa morti martedì nell’impianto sardo della Saras, che fa capo alla famiglia Moratti. Allora, un anno e mezzo fa, giornali, politici, sindacalisti e investigatori dopo poche ore avevano già emesso la sentenza, che era quella di omicidio volontario. «L’azienda sapeva che il pericolo c’era e non ha fatto nulla», era la frase sulla bocca di tutti. Stavolta, leggendo le cronache, l’aria che si respira è invece quella della «maledetta fatalità», come l’ha definita ieri il felpatissimo Corriere della Sera. Stesso quotidiano che nel dicembre del 2007 parlava di «morti annunciate» alla Thyssen.
Bene: è giusto evitare condanne affrettate e non cedere all’impulso. Che però è una regola che dovrebbe valere sempre, almeno dinanzi a situazioni simili. E, a giudicare dalle informazioni disponibili, le analogie tra i due casi abbondano. Ad esempio, in tutte e due le circostanze le procedure di emergenza non hanno nemmeno fatto in tempo a entrare in funzione, e gli operai coinvolti sono stati costretti in quei drammatici secondi ad aiutarsi l’un l’altro, con esiti tragici. Segno che nell’organizzazione del lavoro e nella preparazione ad affrontare gli incidenti ci sono state grosse lacune. Non solo: anche l’impianto della Saras, al pari di quello della Thyssen, era stato oggetto di denunce da parte di chi lo conosceva. Il regista indipendente Massimilano Mazzotta ha girato un film, “Oil”, già da tempo acquisito dalla magistratura, in cui documenta l’inquinamento causato dalla raffineria di Sarroch e soprattutto lancia l’allarme per le «gare d’appalto a bassi costi» che assegnano lavori delicati a imprese esterne che impongono «turni massacranti» e zero sicurezza. E l’incidente è avvenuto proprio durante le operazioni di manutenzione compiute da una cooperativa i cui operai, secondo le prime ricostruzioni, erano entrati nella cisterna senza mascherina. Insomma, anche per la Saras è difficile parlare di incidente imprevedibile. Eppure, fosse stato per i suoi dirigenti, la pellicola di Mazzotta sarebbe stata sequestrata mesi fa.
Certo, le differenze non mancano. Ad esempio l’impianto della Thyssen, destinato alla chiusura, secondo le denunce degli operai non aveva più squadre anti-incendio - perché erano state smantellate - e disponeva di attrezzature per l’emergenza fatiscenti. Mentre la Saras ha aderito a un protocollo con cui si sottopone a regole di sicurezza più severe di quelle fissate dalla legge. Ciò nonostante, è probabile che anche nel caso della raffineria sarda le attenzioni degli inquirenti si concentrino sugli effetti dei tagli alle spese per la manutenzione. Di certo, da quanto si è capito sinora, non c’è alcun motivo per trattare con regole opposte il rogo della Thyssen e quanto accaduto alla Saras. Quale che sia il metodo usato per discutere dell’uno, calza bene anche all’altro.
Un pensierino va fatto infine alla filiera del petrolio. La cui tecnologia oggi è più pericolosa, inquinante e obsoleta di quella nucleare, e ne abbiamo appena avuto l’ennesima conferma. Ma i tre morti nell’impianto della Saras, per qualche strano motivo, non sono addebitati all’uso che facciamo del petrolio. E invece, fossimo razionali, parlando dei costi e dei benefici del nucleare e delle energie concorrenti, metteremmo sul piatto della bilancia anche il prezzo - vite umane incluse - che paghiamo per esserci legati mani e piedi agli idrocarburi.
© Libero. Pubblicato il 28 maggio 2009.
Che i padroni non fossero tutti uguali è roba nota. Alcuni sono «a prescindere» più buoni degli altri, anche se il loro stomaco può contare su una voluminosa matassa di pelo. Ma ieri si è scoperto che pure i morti sul lavoro non sono tutti uguali. Certi - come quelli che nel dicembre del 2007 morirono nel rogo torinese della Thyssen - chiedono giustizia immediata, cioè vendetta: sangue chiama sangue. Altre vittime ispirano invece ragionamenti più pacati, decisioni a freddo e procedure molto più garantiste. È il caso dei tre lavoratori della cooperativa di manutenzione Comesa morti martedì nell’impianto sardo della Saras, che fa capo alla famiglia Moratti. Allora, un anno e mezzo fa, giornali, politici, sindacalisti e investigatori dopo poche ore avevano già emesso la sentenza, che era quella di omicidio volontario. «L’azienda sapeva che il pericolo c’era e non ha fatto nulla», era la frase sulla bocca di tutti. Stavolta, leggendo le cronache, l’aria che si respira è invece quella della «maledetta fatalità», come l’ha definita ieri il felpatissimo Corriere della Sera. Stesso quotidiano che nel dicembre del 2007 parlava di «morti annunciate» alla Thyssen.
Bene: è giusto evitare condanne affrettate e non cedere all’impulso. Che però è una regola che dovrebbe valere sempre, almeno dinanzi a situazioni simili. E, a giudicare dalle informazioni disponibili, le analogie tra i due casi abbondano. Ad esempio, in tutte e due le circostanze le procedure di emergenza non hanno nemmeno fatto in tempo a entrare in funzione, e gli operai coinvolti sono stati costretti in quei drammatici secondi ad aiutarsi l’un l’altro, con esiti tragici. Segno che nell’organizzazione del lavoro e nella preparazione ad affrontare gli incidenti ci sono state grosse lacune. Non solo: anche l’impianto della Saras, al pari di quello della Thyssen, era stato oggetto di denunce da parte di chi lo conosceva. Il regista indipendente Massimilano Mazzotta ha girato un film, “Oil”, già da tempo acquisito dalla magistratura, in cui documenta l’inquinamento causato dalla raffineria di Sarroch e soprattutto lancia l’allarme per le «gare d’appalto a bassi costi» che assegnano lavori delicati a imprese esterne che impongono «turni massacranti» e zero sicurezza. E l’incidente è avvenuto proprio durante le operazioni di manutenzione compiute da una cooperativa i cui operai, secondo le prime ricostruzioni, erano entrati nella cisterna senza mascherina. Insomma, anche per la Saras è difficile parlare di incidente imprevedibile. Eppure, fosse stato per i suoi dirigenti, la pellicola di Mazzotta sarebbe stata sequestrata mesi fa.
Certo, le differenze non mancano. Ad esempio l’impianto della Thyssen, destinato alla chiusura, secondo le denunce degli operai non aveva più squadre anti-incendio - perché erano state smantellate - e disponeva di attrezzature per l’emergenza fatiscenti. Mentre la Saras ha aderito a un protocollo con cui si sottopone a regole di sicurezza più severe di quelle fissate dalla legge. Ciò nonostante, è probabile che anche nel caso della raffineria sarda le attenzioni degli inquirenti si concentrino sugli effetti dei tagli alle spese per la manutenzione. Di certo, da quanto si è capito sinora, non c’è alcun motivo per trattare con regole opposte il rogo della Thyssen e quanto accaduto alla Saras. Quale che sia il metodo usato per discutere dell’uno, calza bene anche all’altro.
Un pensierino va fatto infine alla filiera del petrolio. La cui tecnologia oggi è più pericolosa, inquinante e obsoleta di quella nucleare, e ne abbiamo appena avuto l’ennesima conferma. Ma i tre morti nell’impianto della Saras, per qualche strano motivo, non sono addebitati all’uso che facciamo del petrolio. E invece, fossimo razionali, parlando dei costi e dei benefici del nucleare e delle energie concorrenti, metteremmo sul piatto della bilancia anche il prezzo - vite umane incluse - che paghiamo per esserci legati mani e piedi agli idrocarburi.
© Libero. Pubblicato il 28 maggio 2009.