La marcia indietro e la minaccia
di Fausto Carioti
Il succo del discorso è tutto lì, nelle parole dette ieri da Gianfranco Fini ai suoi affinché Silvio Berlusconi intendesse: «Non ho intenzione di togliere il disturbo né di stare zitto». Frase che contiene una marcia indietro e una minaccia. La marcia indietro è evidente: l’intenzione di «togliere il disturbo», creando gruppi parlamentari propri, autonomi dal PdL, Fini ce l’aveva eccome. L’aveva annunciata nel faccia a faccia con Berlusconi e iniziata a mettere in pratica nelle ore seguenti, telefonando ai “suoi” parlamentari. Che poi, in buona parte, ha scoperto essere passati armi e bagagli con il Cavaliere.
Il voltafaccia del co-fondatore del PdL è ancora più lampante se si volge lo sguardo indietro di qualche mese. Nel congresso che sancì lo scioglimento di Alleanza nazionale Fini disse che il PdL «mai e poi mai dovrà pensarsi e organizzarsi secondo la degenerazione della democrazia che è la correntocrazia. Nessuno pensi di fare la corrente di An nel PdL». Altrimenti, chiosò, «non sarebbe stato meglio tenersi un partito del 10-12 per cento?». Già. E invece una nuova corrente di ex aennini è proprio quello a cui sta lavorando. Per carità, in politica è difficile trovare chi non si sia contraddetto una dozzina di volte. Però Fini queste cose le disse tredici mesi fa. Un po’ pochi, per chi oggi si presenta come il portabandiera della coerenza.
Per consentire a Fini di restare nel Popolo della libertà senza perdere la faccia, gli stessi uomini dell’ex leader di An hanno scelto di gettare la croce sulle spalle di Italo Bocchino. Il vice capogruppo del PdL alla Camera è indicato sia come il cattivo consigliere, sia come l’esecutore maligno che si è voluto spingere molto più in là di dove Fini gli avrebbe detto di fermarsi. Fini, infatti, non ha mai ammesso in pubblico di voler creare gruppi parlamentari autonomi.
Ora, Bocchino avrà pure commesso errori nel gestire la vicenda, e di sicuro poteva comportarsi molto meglio durante il confronto televisivo col forzista Maurizio Lupi. Però ha ragione quando dice, nell’intervista pubblicata ieri da Libero: «Non faccio atti o dichiarazioni che non corrispondono a quanto da me concordato con Fini». Anche i divani, a Montecitorio, sanno che Bocchino ha agito su mandato del presidente della Camera. Il quale, peraltro, avrebbe potuto sconfessarlo in pubblico con una dichiarazione di due righe, e la faccenda dei gruppi autonomi - preludio alla scissione - si sarebbe chiusa lì. Ma si è guardato bene dal farlo.
Il problema, per Berlusconi, non è però che Fini si sia rimangiato le sue velleità autonomiste e sia pronto a restare. Il problema è la sua volontà di «non stare zitto». Di per sé, parlare è una gran bella cosa. Specie se fai parte di una cosa che si chiama Parlamento. Solo che, in bocca a Fini, quelle tre parole assumono un inequivocabile significato minaccioso. E per capirlo non ci volevano i propositi raccontati a Repubblica da alcuni finiani, che hanno spiegato così cosa fare a Berlusconi una volta organizzata la loro “corrente di minoranza”: «Lo facciamo impazzire. Chiediamo la direzione ogni mese. Su ogni problema possiamo frastagliare il partito, come avvenuto con la legge sulla caccia. Ci possiamo mettere di traverso su tutto». Insomma, l’intenzione è quella di mandare in scena, con Fini protagonista, “Marco Follini 2, la vendetta”, film al quale il premier non ha alcuna voglia di assistere.
Di sicuro, l’ambizione della nuova sfida di Fini è inversamente proporzionale alle sue forze. Ieri c’è stata la prima vera conta tra i parlamentari del PdL provenienti da Alleanza nazionale. La notizia è che Maurizio Gasparri, Ignazio La Russa, Gianni Alemanno e Giorgia Meloni (anche il sindaco di Roma e la giovane ministra hanno scelto questo lato della barricata) hanno scritto un documento in cui riaffermano la loro scelta «irreversibile» di stare nel PdL. E questo testo è stato firmato da 75 parlamentari provenienti da An, ai quali se ne dovrebbero aggiungere altri.
Anche se i firmatari hanno avuto la delicatezza di dire che non è un documento contro Fini, è chiaro che si tratta proprio una risposta al loro ex leader. I colonnelli sono cresciuti e hanno messo sotto scacco il generale che li comandava. Al quale non resta che accontentarsi di qualche caporale e un po’ di soldati semplici. Infatti, convocando i parlamentari a lui vicini, Fini ha scoperto che sono 51, e nemmeno così noti. Li avesse chiamati a raccolta per sancire la scissione, anziché per creare una minoranza interna al PdL, sarebbero stati ancora meno. Tanto che l’ex leader di An ha confidato a chi gli stava vicino una certa delusione per le tante assenze illustri. Fini si è consolato dicendo di Gasparri, La Russa, Alemanno e gli altri «credo che in cuor loro siano d’accordo con me, ma ufficialmente non vogliono che si sappia». Frase che ha il sapore di quelle bugie consolatorie che ogni uomo è capace di raccontare a se stesso quando le cose non gli vanno per il verso giusto.
© Libero. Pubblicato il 21 aprile 2010.
Il succo del discorso è tutto lì, nelle parole dette ieri da Gianfranco Fini ai suoi affinché Silvio Berlusconi intendesse: «Non ho intenzione di togliere il disturbo né di stare zitto». Frase che contiene una marcia indietro e una minaccia. La marcia indietro è evidente: l’intenzione di «togliere il disturbo», creando gruppi parlamentari propri, autonomi dal PdL, Fini ce l’aveva eccome. L’aveva annunciata nel faccia a faccia con Berlusconi e iniziata a mettere in pratica nelle ore seguenti, telefonando ai “suoi” parlamentari. Che poi, in buona parte, ha scoperto essere passati armi e bagagli con il Cavaliere.
Il voltafaccia del co-fondatore del PdL è ancora più lampante se si volge lo sguardo indietro di qualche mese. Nel congresso che sancì lo scioglimento di Alleanza nazionale Fini disse che il PdL «mai e poi mai dovrà pensarsi e organizzarsi secondo la degenerazione della democrazia che è la correntocrazia. Nessuno pensi di fare la corrente di An nel PdL». Altrimenti, chiosò, «non sarebbe stato meglio tenersi un partito del 10-12 per cento?». Già. E invece una nuova corrente di ex aennini è proprio quello a cui sta lavorando. Per carità, in politica è difficile trovare chi non si sia contraddetto una dozzina di volte. Però Fini queste cose le disse tredici mesi fa. Un po’ pochi, per chi oggi si presenta come il portabandiera della coerenza.
Per consentire a Fini di restare nel Popolo della libertà senza perdere la faccia, gli stessi uomini dell’ex leader di An hanno scelto di gettare la croce sulle spalle di Italo Bocchino. Il vice capogruppo del PdL alla Camera è indicato sia come il cattivo consigliere, sia come l’esecutore maligno che si è voluto spingere molto più in là di dove Fini gli avrebbe detto di fermarsi. Fini, infatti, non ha mai ammesso in pubblico di voler creare gruppi parlamentari autonomi.
Ora, Bocchino avrà pure commesso errori nel gestire la vicenda, e di sicuro poteva comportarsi molto meglio durante il confronto televisivo col forzista Maurizio Lupi. Però ha ragione quando dice, nell’intervista pubblicata ieri da Libero: «Non faccio atti o dichiarazioni che non corrispondono a quanto da me concordato con Fini». Anche i divani, a Montecitorio, sanno che Bocchino ha agito su mandato del presidente della Camera. Il quale, peraltro, avrebbe potuto sconfessarlo in pubblico con una dichiarazione di due righe, e la faccenda dei gruppi autonomi - preludio alla scissione - si sarebbe chiusa lì. Ma si è guardato bene dal farlo.
Il problema, per Berlusconi, non è però che Fini si sia rimangiato le sue velleità autonomiste e sia pronto a restare. Il problema è la sua volontà di «non stare zitto». Di per sé, parlare è una gran bella cosa. Specie se fai parte di una cosa che si chiama Parlamento. Solo che, in bocca a Fini, quelle tre parole assumono un inequivocabile significato minaccioso. E per capirlo non ci volevano i propositi raccontati a Repubblica da alcuni finiani, che hanno spiegato così cosa fare a Berlusconi una volta organizzata la loro “corrente di minoranza”: «Lo facciamo impazzire. Chiediamo la direzione ogni mese. Su ogni problema possiamo frastagliare il partito, come avvenuto con la legge sulla caccia. Ci possiamo mettere di traverso su tutto». Insomma, l’intenzione è quella di mandare in scena, con Fini protagonista, “Marco Follini 2, la vendetta”, film al quale il premier non ha alcuna voglia di assistere.
Di sicuro, l’ambizione della nuova sfida di Fini è inversamente proporzionale alle sue forze. Ieri c’è stata la prima vera conta tra i parlamentari del PdL provenienti da Alleanza nazionale. La notizia è che Maurizio Gasparri, Ignazio La Russa, Gianni Alemanno e Giorgia Meloni (anche il sindaco di Roma e la giovane ministra hanno scelto questo lato della barricata) hanno scritto un documento in cui riaffermano la loro scelta «irreversibile» di stare nel PdL. E questo testo è stato firmato da 75 parlamentari provenienti da An, ai quali se ne dovrebbero aggiungere altri.
Anche se i firmatari hanno avuto la delicatezza di dire che non è un documento contro Fini, è chiaro che si tratta proprio una risposta al loro ex leader. I colonnelli sono cresciuti e hanno messo sotto scacco il generale che li comandava. Al quale non resta che accontentarsi di qualche caporale e un po’ di soldati semplici. Infatti, convocando i parlamentari a lui vicini, Fini ha scoperto che sono 51, e nemmeno così noti. Li avesse chiamati a raccolta per sancire la scissione, anziché per creare una minoranza interna al PdL, sarebbero stati ancora meno. Tanto che l’ex leader di An ha confidato a chi gli stava vicino una certa delusione per le tante assenze illustri. Fini si è consolato dicendo di Gasparri, La Russa, Alemanno e gli altri «credo che in cuor loro siano d’accordo con me, ma ufficialmente non vogliono che si sappia». Frase che ha il sapore di quelle bugie consolatorie che ogni uomo è capace di raccontare a se stesso quando le cose non gli vanno per il verso giusto.
© Libero. Pubblicato il 21 aprile 2010.