Dal Dalemoni al Dalemini

di Fausto Carioti

A Massimo D’Alema si è rimpicciolito il progetto. Dal Dalemoni di qualche anno fa l’ex premier è passato a un più modesto Dalemini. Dal grande inciucio bipolarista con Silvio Berlusconi, che doveva ridisegnare la seconda repubblica e trasformarla nella terza, all’inciucino centrista con Gianfranco Fini, magari Pier Ferdinando Casini, forse Francesco Rutelli, chissà Luca Cordero di Montezemolo. Un progettino piccino picciò, per di più con zero possibilità di andare in porto. Che non è digerito nemmeno da tre quarti del Pd. Svillaneggiato dall’Unità, il giornale che D’Alema aveva diretto dal 1988 al 1990: «Imbarchiamo dalla nostra parte qualsiasi essere respirante abbia da dire contro Berlusconi: che siano giornalisti di destra, o ex fascisti che hanno messo in piedi leggi violente contro l’immigrazione», ha scritto Francesco Piccolo.

Ecco, tra questi «imbarcatori» da ieri c’è pure D’Alema. Il quale, intervistato dal Corriere, esaurite le premesse di rito («Fini non è l’alleato di operazioni strumentali»), ha spiegato la sua strategia: «Fini è l’interlocutore importante - e per questo dialogo con lui da anni - di un centrosinistra che capisce che il Paese non si può più governare in questo modo». A parte che al resto del mondo era sembrato che D’Alema, semmai, dialogasse con Berlusconi e Umberto Bossi, e non con Fini, il quale comunque gli preferiva Walter Veltroni, la nuova avventura di D’Alema merita di essere presa sul serio. Come stanno facendo a sinistra, dove - conoscendo ciò di cui il personaggio è capace - hanno già avviato i rituali apotropaici.

Anche perché questa strategia non attrae solo l’ex ministro degli Esteri. Il politologo finiano Alessandro Campi, tanto per dirne uno, l’ha invocata in un’intervista a Repubblica come soluzione ai mali del berlusconismo (poi si chiedono come mai il Cavaliere non si fidi di loro). Il segretario del Partito democratico, Pier Luigi Bersani, ha proposto un nuovo Comitato di liberazione nazionale che tenga dentro tutti tranne Berlusconi e Bossi. Cioè i vincitori delle elezioni: democratico davvero, questo Pd. I centristi Francesco Rutelli, Bruno Tabacci e Pier Ferdinando Casini, ognuno col suo viaggio ognuno diverso, in fondo non vedono l’ora di incontrarsi con gli altri in qualcosa di più grande e più bello, nella solita convinzione che unendo tre o quattro debolezze si possa dar vita a una mezza forza. E anche se ciò che tutti quanti questi vogliono fare insieme non è ancora chiaro nemmeno a loro, quello che non vogliono lo sanno benissimo: sono le elezioni anticipate, che raderebbero al suolo le loro speranze di resurrezione e lancerebbero Berlusconi verso il Quirinale.

Una spanna sopra costoro, poi, aleggia sempre Luca Cordero di Montezemolo. Ora che non guida più la Fiat, l’ex presidente di Confindustria gode da matti a far credere che un giorno potrebbe pure entrare in politica. Gliel’hanno chiesto per l’ennesima volta l’altro giorno, alla Luiss. Lui prima si è rifiutato di rispondere, poi ha detto: «Lo farò quando la Ferrari vincerà dieci gran premi di fila». Intanto ha fatto sapere di considerare il voto anticipato una iattura e continua a randellare l’attuale classe dirigente, lasciando intendere che con lui al timone sì che le cose sarebbero diverse. Facile indovinare come finirà: dopo aver illuso un po’ tutti non si concederà a nessuno, perché il personaggio adora piacere e detesta dividere. Però qualcuno che ci casca c’è sempre.

Proprio il Secolo (toh) gli sta strizzando l’occhio. L’altro giorno il quotidiano finiano citava un sondaggio del Sole-24 Ore secondo il quale, se nel progetto politico del presidente della Camera «fossero cooptati anche il numero uno dell’Udc, Pier Ferdinando Casini, e il leader di Alleanza per l’Italia, Francesco Rutelli», il pacchetto di consensi sarebbe pari al 13%. «Per arrivare addirittura al 16% se della partita fosse anche Luca Montezemolo». E ieri il Secolo ha messo Montezemolo in prima pagina, dopo che, assieme a Fini, ha proposto un patto «perché l’Italia torni a essere un Paese per giovani».

È lo stesso Secolo che nel maggio del 2007 avvertiva che «il progetto di Montezemolo e Casini costituisce un pericolo grave, perché dietro si nasconde un progetto di governance tecnocratica che si inserisce in una visione del mondo in definitiva sospettosa e dubbiosa della sovranità popolare e finalizzata a ricostruire il nesso poteri forti-gestione della politica. Si tratta, in ultima istanza, di un progetto conservatore, contro il quale la destra politica dovrebbe innalzare i suoi argini». Da allora, a quanto pare, è cambiato qualcosa, e non si tratta né di Montezemolo né di Casini.

Il problema di queste ambizioni, come sempre, sono i numeri. Nel Paese e prima ancora in Parlamento. L’unico dato positivo che Berlusconi può trarre dagli eventi degli ultimi giorni, infatti, è che i ranghi dei finiani - anche di quelli più fedeli al presidente della Camera - sono tutt’altro che compatti e determinati. Ieri hanno preferito evitare di contarsi sulle dimissioni di Italo Bocchino, lasciando al suo destino il vicecapogruppo dei deputati del PdL, piuttosto che affrontare una votazione dalla quale sarebbero usciti divisi persino tra di loro. Insomma, il Dalemini ha tutti i presupposti per fare la stessa fine del Dalemoni. Con buona pace delle menti raffinatissime che l’hanno partorito.

© Libero. Pubblicato il 30 aprile 2010.

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