Dal 13 dicembre al 12 gennaio

di Fausto Carioti

Dal 13 dicembre al 12 gennaio. Il tempo delle mele non è durato manco un mese. L’aggressione di Massimo Tartaglia a Silvio Berlusconi aveva portato a galla i grumi d’odio che caratterizzano una vasta parte della sinistra italiana. Tanti, anche nello stesso Partito democratico, erano inorriditi davanti a quella visione. Complici i canti di Natale e il taglio del panettone, da una parte e dall’altra ci si era convinti che fosse giunto il momento di lavorare per un clima nuovo. O almeno di provarci. Il Popolo della Libertà e il Pd avevano accarezzato la possibilità di fare insieme le riforme più importanti. Giorgio Napolitano e il Cavaliere si erano concessi una ricarica di fiducia reciproca, per quanto limitata. E anche tra i due co-fondatori del PdL, sebbene in modo convulso, alla fine le tensioni sembravano essersi stemperate. Di tutto questo, ieri è rimasto ben poco. Perché gli ottimisti di una parte e dell’altra avevano perso di vista il dato fondamentale: e cioè che a dettare i tempi della politica, in questo Paese, non è la politica stessa, ma sono le aule giudiziarie.

Da quando la Corte Costituzionale ha bocciato il Lodo Alfano, Berlusconi è diventato giudicabile, cioè destinato a una pressoché certa condanna in primo grado nel momento in cui il processo Mills dovesse concludersi (e non manca molto). Gli impegni istituzionali possono tenerlo lontano dal tribunale fino a un certo punto: a Berlusconi serve una legge che sfili la sua testa dalla mannaia, e gli serve in tempi rapidi. Quando il presidente del Consiglio dice che, anche in caso di condanna, lui non si dimetterà, evoca quello che gli americani chiamano «worst case scenario», l’ipotesi peggiore. Ma si tratta di uno scenario nel quale il Cavaliere non ha alcuna voglia di trovarsi, perché sa benissimo quanto una sentenza simile lo indebolirebbe politicamente. E si fida fino a un certo punto del Napolitano che dice che «nulla può abbattere un governo che abbia la fiducia della maggioranza del Parlamento». Così, piaccia o meno, Berlusconi è costretto a stringere i tempi. Dalla sua ha tanti italiani: tra tutte le riforme, quella della giustizia è la più sentita dagli elettori, il 43% dei quali la considera la più urgente, come rivelato dal sondaggio diffuso ieri a Ballarò da Ferdinando Pagnoncelli.

La maggioranza, però, non sembra avere ancora le idee chiare. Nell’ultimo mese sono girate tutte le ipotesi: le norme per processo breve, legittimo impedimento, lodo Alfano in versione costituzionale e ritorno all’immunità parlamentare, a turno, sono state seppellite, riesumate o riscritte con cadenza quasi giornaliera, anche in nome di un’intesa con il Pd che il principale partito dell’opposizione, inconfessabilmente, avrebbe avuto buoni motivi per accettare. «Diteci quale carta preferite e noi la caleremo», è stato, in sostanza, il messaggio spedito dal PdL al Pd. Non si pretendeva un appoggio entusiasta, ci si limitava a chiedere una sorta di ostilità moderata. In cambio, si offriva la massima disponibilità al confronto su tutte le altre riforme. Riaperto il Parlamento e arrivato il momento del redde rationem - ieri nell’aula del Senato si è discusso del processo breve - si è capito che Pier Luigi Bersani non ha la forza per condurre in porto nemmeno un accordo siffatto. Vuoi per la sua debolezza politica; vuoi perché il Pd è sempre più una ruota di scorta dell’Anm, il sindacato dei magistrati; vuoi perché tra poche settimane si vota per le regionali, e Antonio Di Pietro non aspetta altro per mordere al collo il partito di Bersani e succhiargli ulteriori voti. Fatto sta che la risposta del Pd è stata un «no» secco.

Il risultato è che la maggioranza ha capito che deve tirare avanti per conto suo. Tiene aperte ancora tutte le ipotesi di “norme ponte” e di revisione costituzionale, ma, per dare tempo a Berlusconi, pensa a un decreto che consenta di sospendere per tre mesi i processi a carico del premier. Il Pd si prepara alla guerra. I segnali che giungono dal Quirinale indicano che l’apertura di credito concessa da Napolitano è in via di rapido esaurimento. E Fini, in tutto questo, non ha alcuna voglia di fare da spettatore: chiede a Berlusconi di intervenire sul contenuto delle norme sulla giustizia. E, appena spunta l’ipotesi del decreto, avvisa il governo che aver vinto le elezioni non lo autorizza a scavalcare il parlamento usando la decretazione d’urgenza. Il Pd applaude a scena aperta e Napolitano - concordata o meno che fosse l’uscita di Fini - di sicuro apprezza.

Dal fronte berlusconiano si risponde facendo buon viso a cattivo gioco. Il rospo-Fini, inaspettato, viene ingoiato fingendo che sia ordinaria amministrazione. Berlusconi proverà a disinnescare il presidente della Camera domani, in un faccia a faccia durante il quale, di sicuro, si parlerà molto dei provvedimenti sulla giustizia e degli assetti interni del PdL. Insomma, tutto è tornato come un mese fa.

L’arma migliore del Cavaliere restano gli elettori: un successo del PdL - candidati finiani inclusi - alle regionali lo rafforzerebbe dal punto di vista politico. E il Pd, con le sue zuffe e le sue indecisioni, in questo caso gli stando il migliore degli aiuti possibili. Tutto sta a vedere quanto, da qui al voto, sarà peggiorata per Berlusconi la situazione. Nei palazzi della capitale, ma soprattutto nelle aule del tribunale di Milano.

© Libero. Pubblicato il 13 gennaio 2010.

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