Il governo di destra che fa cose di sinistra

di Fausto Carioti

Per anni si è pensato che la formula giusta per l'Italia fosse quella invocata - con una bella dose di cinismo - da Gianni Agnelli: un governo di sinistra che faccia una politica di destra. Vero o no che fosse, oggi vale l'esatto opposto: il governo Berlusconi, piaccia o meno, funziona proprio perché da destra sta facendo cose di sinistra. Giulio Tremonti, il ministro più popolare, ormai sta al liberismo reaganiano come la sagra della porchetta di Ariccia sta alla notte degli Oscar di Hollywood. I provvedimenti varati mercoledì a palazzo Chigi da un lato tolgono soldi a banche, assicurazioni e petrolieri, dall'altro aumentano gli stanziamenti per poveri e anziani e finanziano mutui agevolati per far acquistare la casa a famiglie poco abbienti, studenti fuori sede e immigrati regolari. Quanto al ticket sanitario da 10 euro che indigna l'opposizione, fu previsto proprio dal “patto per la salute” voluto dal governo Prodi, anche se mai introdotto. I ministri attuali - come i loro predecessori - sanno che servirebbe a contenere la spesa sanitaria e a mettere un po' di fieno in cascina (il ticket vale 830 milioni di euro l'anno). Ma sanno anche che gli elettori non gradirebbero, e proprio per questo hanno già assicurato che s'impegneranno per trovare quei soldi altrove.

Insomma, appare tutto molto “di sinistra”. Pure troppo. A partire dal linguaggio del ministro dell'Economia, che denuncia gli «excessive profits» dei biechi petrolieri, manco fosse un Fausto Bertinotti qualunque. Ma il problema, per la minoranza, è proprio questo: se a togliere ai ricchi per dare ai poveri ci pensa la destra, a che serve una sinistra? Se il confronto tra tagliatori di tasse e nostalgici del “big government” è una questione interna al governo, per non dire un affare privato del ministro Giulio col suo consigliere Tremonti, quali spazi restano, in politica economica, all'opposizione? Così si spiega la Babele di voci con cui parla in queste ore la sinistra. Tra chi condivide buona parte degli interventi del governo ma non vuole che si sappia in giro, chi apprezza le novità più importanti della manovra e sprona l'esecutivo a liberalizzare di più e chi spera ancora di statalizzare le imprese petrolifere, alla fine l'unico messaggio che filtra è che, di quello che sta accadendo in questa legislatura, non hanno ancora capito nulla.

È spuntato, ad esempio, un inedito asse di pasdaran che comprende i vertici dell'Unione petrolifera (noti alfieri del progressismo), il gotha dei banchieri italiani, la Cgil e l'Unità. Ritengono, costoro, che la manovra sia ingiusta. È l'unica cosa su cui sono davvero d'accordo. Perché poi uno pensa che l'ingiustizia stia nel fatto che la manovra redistribuisce ai danni delle imprese più ricche e l'altro s'indigna perché sostiene che, tra il dare e l'avere, siano i poveri cristi a rimetterci. Guarda caso, a prendersela sono i rappresentanti delle società alle quali il governo ha ridotto i dividendi e quelli che dal 1994 dicono «no» a qualunque cosa porti la firma di Silvio Berlusconi. Tutto molto scontato.

Anche perché in mezzo a Guglielmo Epifani, leader della Cgil, e Pasquale De Vita, presidente dei petrolieri italiani, c'è il vuoto. Emma Marcegaglia, numero uno degli industriali, che in un primo momento aveva sposato le preoccupazioni dell'Unione Petrolifera, ieri ha fatto una brusca marcia indietro: l'aumento delle imposte dovute alla cosiddetta “Robin Hood tax” «è inferiore a quanto ci si aspettava» e il giudizio di Confindustria sulla manovra, ha spiegato, «è complessivamente positivo». All'assemblea di Confcommercio il presidente, Carlo Sangalli, ha invitato l'esecutivo e la maggioranza ad andare avanti. La Cgil si agita e parla di «tagli indiscriminati» alla spesa sociale, ma ad essere isolato è proprio il sindacato di corso Italia. Il leader della Cisl, Raffaele Bonanni, assicura che non ci sono «tagli sul sociale» e assieme al numero uno della Uil, Luigi Angeletti, apprezza che il governo sia andato a levare i soldi alle imprese che ne hanno fatti di più negli ultimi anni.

Pure i giornali d'area non sanno che pesci prendere. L'Unità sorvola sulla spremuta ai danni di petrolieri e banchieri e grida che sono in atto un «attacco al lavoro» e una «stangata contro le famiglie», dai contorni non ben definiti. È il vecchio cliché della «macelleria sociale», che negli anni passati sarà pure servito a qualcosa, ma al quale oggi, davvero, non crede più nessuno. Nemmeno Repubblica, che a malincuore ammette che nel piano presentato da Tremonti ci sono «un'esplicita impronta “di sinistra” neo-obamiana» e trovate, tipo la “card” per i poveri finanziata con i soldi dei petrolieri, che vanno «quasi oltre i limiti del pauperismo». Il Riformista, caro ai dalemiani, avverte che in Italia, mercoledì, è arrivato il «socialismo reale». Troppa grazia, starà pensando Berlusconi. Digerito, per la perdurante assenza di avversari degni di questo nome, anche l'ultimo spazio a sinistra, al Caimano non resterà che divorarsi il Quirinale.

© Libero. Pubblicato il 20 giugno 2008.

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