Il Partito delle Leggende Metropolitane

di Fausto Carioti

Eppure stavolta Antonio Di Pietro ci aveva provato a parlare di politica. Niente di elevato, per carità, ma due idee in croce, diverse dai soliti insulti a Silvio Berlusconi, le aveva esposte. Aveva detto che puntava a battere il Cavaliere politicamente - e cioè con le elezioni e non a colpi di escort e di pentiti - e che era pronto a fondere l’Italia dei Valori con il Pd. Magari non era vero niente, però lo sforzo andava apprezzato. Poi, come ospite d’onore al congresso dell’Idv, è arrivato Gioacchino Genchi, l’“orecchione” che per conto del la procura di Catanzaro si è fatto gli affaracci telefonici di qualche centinaio di migliaia di italiani e adesso è indagato a Roma per abuso d’ufficio e violazione della privacy. Dal palco, Genchi è riuscito a dire che «nel lancio della statuetta del duomo di Milano a Berlusconi non c’è nulla di vero». Per sostenere questa tesi ha citato nientemeno che la sua «esperienza in polizia» (sulla quale, a questo punto, forse sarebbe il caso di fare una attenta retrospettiva) e «i video che tanti giovani propongono su YouTube». Standing ovation per lui, fine di ogni tentativo di far decollare il congresso dell’Idv. Qui si è capito che tutto sarebbe finito in barzelletta. Come sempre quando c’è Di Pietro di mezzo.

Le frasi di Genchi hanno fatto diventare scuri in volto i dirigenti dell’Italia dei Valori, che pure passano le giornate ad ascoltare Di Pietro e ormai credevano di averle sentite tutte. Lo stesso Tonino, imbarazzato, è dovuto intervenire per dire che la teoria di Genchi è «inimmaginabile e fantasiosa». Anche Genchi ha provato a metterci una pezza, sostenendo di essere stato «totalmente frainteso». Ma il danno era fatto: l’allegra compagnia di manettari e dietrologi da osteria presente in platea aveva applaudito unanime e convintissima le sue frasi, a dimostrazione del potere che hanno le leggende metropolitane sulle menti semplici e poco scolarizzate (i tre libri messi in vendita al congresso dell’Idv fan no fare agli stand delle sagre leghiste la figura della Biblioteca Vaticana).

Del resto, Genchi è stato definito da Marco Travaglio «un integerrimo funzionario di polizia in aspettativa, che lavorava già con Falcone e da 15 anni è consulente di varie procure, Palermo compresa, per delicate inchieste di mafia, catture di latitanti, indagini sui mandanti occulti delle stragi di Capaci e via d’Amelio, sui fiancheggiatori di Provenzano, nonché nei processi Dell’Utri e Cuffaro». Insomma, la giusta via di mezzo tra un poliziotto di Csi Miami e papa Giovanni XXIII. Uno che quando parla dice cose serie.

Per questo fior di investigatore, tutto si spiega con il “cui prodest”: per capire “davvero” per ché una cosa è avvenuta, occorre vedere a chi ha giovato. «Dopo l’outing della moglie di Berlusconi e il fuori onda di Gianfranco Fini», sorpreso a Pescara a sussurrare a un magistrato cose non proprio carine sul premier, «provvidenziale è arrivata quella statuetta che miracolosamente ha salvato Berlusconi dalle di missioni che sarebbero state imminenti», ha argomentato ieri Genchi. Ma sì, che fortunato è stato il Cavaliere a prendersi dritta sui denti quella statuetta del duomo scagliata da Massimo Tartaglia. Il quale, certo, poi ha detto ai magistrati di aver colpito Berlusconi «per il bene del Paese» e di aver «votato per Di Pietro» alle ultime elezioni, come svelato il 15 dicembre dall’Unità. Ma grazie a Genchi e a quei video messi sul Web adesso siamo in grado di capire che l’Unità, Tartaglia e i magistrati milanesi che lo hanno interrogato fanno parte del grande complotto berlusconiano.

Peraltro, applicando in modo rigoroso questo ragionamento del “cui prodest” (e mica potrà essere usato solo con Berlusconi), è possibile avviare una riscrittura niente affatto banale della storia d’Italia. Ad esempio, si può sostenere che Enrico Berlinguer sarebbe stato eliminato dai suoi compagni di partito per far fare al Pci il pieno di voti alle elezioni europee del 1984. Oppure che l’Inter avrebbe pagato dei figuranti per insultare Mario Balotelli dagli spalti di Torino e far squalificare il campo della Juventus. L’unico limite al criterio usato dall’«integerrimo» Genchi è la fantasia.

È questa l’Italia, anzi la grande cospirazione planetaria, in cui vivono i discepoli di Di Pietro, l’apostolo Genchi e i coraggiosi «giovani di YouTube», portatori di verità che i governi vogliono tenere nascoste (da un altro video seguitissimo su YouTube, ad esempio, abbiamo appreso che Barack Obama è l’Anticristo). I quali vanno benissimo quando si deve scendere in piazza o fare casino su Internet per insultare il «nano mafioso» (come viene definito Berlusconi dai fan di Di Pietro sul blog del loro leader). Ma quando occorre dare un colpo d’ala per fingersi presentabili e fare politica sul serio, gente simile rappresenta la zavorra che ti blocca nel fango. Grandissima parte degli elettori di Di Pietro e degli esponenti del suo partito è fatta così, perché è così che lui li ha plasmati. Finora simili personaggi sono stati la sua forza, ieri si è capito che sono anche il suo grande limite.

© Libero. Pubblicato il 7 febbraio 2010.

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