Anche Ahmadinejad aiuta Berlusconi

di Fausto Carioti

Il terzo giorno è resuscitato. Giunto il primo febbraio in Terra Santa, Silvio Berlusconi ne è uscito rimesso a nuovo. Il presidente iraniano, Mahmoud Ahmadinejad, ieri gli ha persino ricostruito la verginità internazionale. Dicendo che Berlusconi ha reso «servigi ai padroni israeliani» per aver benedetto la guerra contro Gaza, Ahmadinejad ha allontanato da lui i sospetti di essere l’anello debole del fronte atlantico. E ha messo in secondo piano i rapporti che il premier italiano intrattiene con Vladimir Putin, che avevano creato malumori pure alla Casa Bianca. Il presidente russo ha in Ahmadinejad, sul fronte della gestione dei giacimenti di idrocarburi, e in Berlusconi, dal lato delle forniture di gas, i migliori alleati della sua strategia espansionista. Ma è un calcolo che Berlusconi pare non avere fatto, tanto che a Gerusalemme ha usato parole durissime per il despota iraniano, paragonandolo ad Adolf Hitler. E adesso, al pari di Barack Obama, si trova bersaglio delle invettive di Ahmadinejad. Per la prima volta da chissà quanto tempo, insomma, l’Italia può contare su un leader davvero occidentale.

La consacrazione da parte del leader iraniano arriva al termine di una serie di giornate che hanno rilanciato Berlusconi anche sul fronte interno. Riavvolgendo la videocassetta di un paio di mesi, si assiste a un film del tutto diverso da quello odierno. Intanto allora non era ancora stata trovata la strada giusta per tirare fuori Berlusconi dalle grinfie delle procure. Il Quirinale era sempre più perplesso, per non dire ostile, dinanzi alle iniziative del centrodestra. L’Udc non solo avviava la politica dei due forni in vista delle regionali, ma di lì a breve avrebbe fatto capire di preferire il forno di sinistra. E non c’era giorno in cui Gianfranco Fini e i suoi non ponessero un nuovo problema. Uno stillicidio. Al punto che lo stesso Berlusconi aveva confidato di voler andare a elezioni anticipate, perché è meglio regolare subito i conti con i nemici, interni ed esterni, che farsi logorare così per anni.

Quella cui si assiste adesso è tutta un’altra storia. Per il problema dei problemi, quello giudiziario, si è trovata una soluzione che potrebbe anche essere definitiva. Accantonata la norma per l’introduzione del processo breve, che il Quirinale non digeriva, si è puntato sul legittimo impedimento, che permetterà al premier e ai ministri di rinviare di sei mesi in sei mesi le udienze dei processi che li vedono imputati. A sinistra si aspettavano che, su questo testo, a Montecitorio si consumassero chissà quali vendette interne al PdL. Riletta oggi, Repubblica del primo febbraio (appena quattro giorni fa) fa sorridere: «Sono un incubo da giorni i voti segreti sul legittimo impedimento. Il capogruppo del Pdl Cicchitto se li sogna di notte e si prefigura le nefaste conseguenze di una possibile débacle se i franchi tiratori colpissero. Le opposizioni, se volessero, potrebbero chiedere moltissimi scrutini coperti. E lì, nelle pieghe di quei voti, potrebbe manifestarsi un duplice e pesante dissenso, tutto interno agli ex forzisti».

Si sa come è andata: le votazioni sono filate lisce come l’olio, di dissenso interno al PdL non si è vista l’ombra, l’Udc non ha votato contro, limitandosi all’astensione, e i voti segreti, «incubo» del PdL, non sono stati chiesti dal Pd perché Pier Luigi Bersani sapeva benissimo che tra i suoi c’era chi, di nascosto, avrebbe votato con la maggioranza. E al Senato, come da tradizione in questa legislatura, le cose per il centrodestra non potranno che essere più facili. Insomma, il primo scoglio è stato passato nel modo migliore e l’approvazione definitiva del testo appare a portata di mano. Nulla esclude, poi, che in caso di emergenza si possa ripescare il processo breve, già approvato a palazzo Madama e messo in freezer. Intanto saranno state incardinate le riforme costituzionali per introdurre una nuova immunità parlamentare, che già vede disponibili diversi esponenti del Pd.

Proprio quanto accaduto a Montecitorio conferma che la tregua nel PdL potrebbe durare almeno sino alle elezioni regionali, nelle quali è importante che gli uomini di Fini votino i candidati berlusconiani e viceversa. Anche l’Udc, toccata con mano la pochezza di Bersani (quanto combinato in Puglia, dove il Pd è riuscito a non candidare un suo esponente e a perdere l’alleanza con i cattolici, è da manuale di come non si deve fare politica), ha capito che è meglio provare a riannodare il dialogo con Berlusconi, iniziando dalla giustizia.

Ciliegine sulla torta, lo sbriciolamento del Pd, che ormai ha più correnti della vecchia Dc, con la differenza che quella stava al governo e aveva il doppio dei voti; il groviglio nel quale si è avvolto Antonio Di Pietro, imbarazzato davanti alle foto che lo ritraggono insieme all’ex funzionario del Sisde Bruno Contrada, pochi giorni prima che costui fosse arrestato; le disavventure giudiziarie di Patrizia D’Addario, che si trova indagata per associazione a delinquere e vede il suo entourage di giornalisti, avvocati e magistrati sospettato di aver organizzato un complotto ai danni del premier.

Incognita delle procure a parte, le brutte notizie, nei prossimi mesi, potrebbero arrivare a Berlusconi solo dal voto di marzo, dove non bisogna scordare che, delle tredici regioni in palio, undici oggi sono amministrate dalla sinistra. L’eventualità che il centrodestra vinca in sole cinque o sei piazze è concreta. Gli ultimi sondaggi vedono comunque i candidati del PdL guadagnare consensi in alcune regioni in bilico, come il Lazio. Riuscisse a raddrizzare anche questa situazione, Berlusconi potrebbe dire di aver azzerato l’opposizione per i prossimi anni.

© Libero. Pubblicato il 5 febbraio 2010.

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