Salvate il soldato Brunetta
di Fausto Carioti
Lasciare Renato Brunetta esposto al fuoco nemico, senza che nessuno spenda mezza parola per difenderlo, è un lusso che il PdL e il governo Berlusconi non si possono permettere. Eppure è proprio quello che sta accadendo. Anzi, succede di peggio. Vedere il ministro per la Pubblica Amministrazione messo sulla graticola anche da quei giornali - tipo il Corriere della Sera - che dovrebbero difendere a spada tratta la sua battaglia contro chi succhia il sangue dei contribuenti sta provocando brividi di piacere in alcuni settori del governo e del partito, dove l’iper-attivismo di Brunetta non è mai stato digerito. Ma il conto, alla fine, rischiano di pagarlo anche loro.
Il personaggio Brunetta può risultare simpatico o stare sulle scatole, ma di sicuro è il ministro che più di ogni altro incarna quella rivoluzione liberale che gli elettori di Silvio Berlusconi attendono dal 1994. Brunetta è la metafora della lotta ai numeri di telefono della pubblica amministrazione che squillano a vuoto per ore, ai travet che si danno malati per andare a giocare a calcetto, ai premi di produttività assegnati anche se usi l’ufficio solo per trastullarti su Facebook, ai consulenti strapagati per mettere ovvietà nero su bianco. Brunetta è la speranza dei poveri fessi che si riconoscono nella definizione di Giuseppe Prezzolini: «Se uno paga il biglietto intero in ferrovia, non entra gratis a teatro; non ha un commendatore zio, amico della moglie e potente nella magistratura, nella Pubblica Istruzione ecc.; non è massone o gesuita; dichiara all’agente delle imposte il suo vero reddito; mantiene la parola data anche a costo di perderci ecc., questi è un fesso». E i primi a brindare alla rottamazione del ministro sarebbero proprio gli assenteisti, i parassiti e i figli di buona donna. Categorie presenti ovunque, ma che nella pubblica amministrazione avevano trovato l’ecosistema perfetto per crescere e moltiplicarsi, e non vedono l’ora di ricominciare.
Il problema di Brunetta (e quindi di noialtri fessi che tifiamo per lui) è che il segnale della svolta l’ha dato davvero. Il crollo delle assenze negli uffici pubblici è reale, la paura di essere licenziati se si viene scoperti in palestra durante gli orari d’ufficio è concreta. Certo, è vero anche che le sue prede si sono sapute adeguare al nuovo clima. In alcune città del Sud, ad esempio, dopo il solito calo delle assenze per malattia (il cosiddetto “effetto Brunetta”), è apparso un aumento di assenze dovute ad altri motivi, come i permessi per accompagnare gli invalidi. Ma questo, semmai, è un motivo in più per gridare «forza Renato».
Gli italiani lo hanno capito. I sondaggi gli attribuiscono la fiducia del 58 per cento degli elettori: molto diffusa tra quelli di centrodestra, ma ragguardevole pure sulla sponda opposta. Riceve standing ovation nei posti più impensabili, tipo il congresso della Cisl, dove è stato interrotto decine di volte dagli applausi. Brunetta, che ha tanti difetti ma non quello della falsa modestia, ogni volta che può spara contro avversari e alleati questi e gli altri dati che confermano il suo consenso. Ha scritto un libro, intitolato “Rivoluzione in corso”, per illustrare la sua missione: «Cambiare si può, quindi si ha il dovere di farlo». E le invidie sono aumentate.
I risultati si vedono. Da qualche tempo va di moda dipingere Brunetta ora come un Don Chisciotte, ora come un millantatore. L’ultimo a provarci, ieri, è stato l’Espresso, che gli ha dedicato la copertina, il titolo “Brunetta bluff” e un’inchiesta che il ministro, con la pignoleria che gli è propria, si è divertito a smontare pezzo per pezzo. Ma l’Espresso appartiene al gruppo di Carlo De Benedetti e una simile imboscata fa parte dei giochi. Diverso il caso del Corriere della Sera, che dieci giorni fa ha pubblicato un articolo per denunciare «i dubbi tra i colleghi di governo sulla strategia degli annunci» di Brunetta. Articolo che seguiva un’intervista rilasciata dal ministro al Sole-24 Ore, che aveva creato qualche mal di pancia nell’esecutivo. Non è un mistero, del resto, che i rapporti tra lui e Giulio Tremonti non siano proprio idilliaci («Siamo caratteri puntuti», ironizza Brunetta nel suo libro). Anche se può contare su diversi amici nella maggioranza e nell’esecutivo, nessuno sinora ha sentito il bisogno di difenderlo.
Ma perdere uno così, per ciò che rappresenta, sarebbe la normalizzazione definitiva del governo Berlusconi. Ovvero il preludio della fine. La sinistra lo sa, ed è per questo che, dopo il premier, si accanisce su di lui. Dovrebbe bastare questo per far capire ai suoi tiepidi alleati e colleghi che salvare il soldato Brunetta conviene anche a loro.
© Libero. Pubblicato il 12 settembre 2009.
Lasciare Renato Brunetta esposto al fuoco nemico, senza che nessuno spenda mezza parola per difenderlo, è un lusso che il PdL e il governo Berlusconi non si possono permettere. Eppure è proprio quello che sta accadendo. Anzi, succede di peggio. Vedere il ministro per la Pubblica Amministrazione messo sulla graticola anche da quei giornali - tipo il Corriere della Sera - che dovrebbero difendere a spada tratta la sua battaglia contro chi succhia il sangue dei contribuenti sta provocando brividi di piacere in alcuni settori del governo e del partito, dove l’iper-attivismo di Brunetta non è mai stato digerito. Ma il conto, alla fine, rischiano di pagarlo anche loro.
Il personaggio Brunetta può risultare simpatico o stare sulle scatole, ma di sicuro è il ministro che più di ogni altro incarna quella rivoluzione liberale che gli elettori di Silvio Berlusconi attendono dal 1994. Brunetta è la metafora della lotta ai numeri di telefono della pubblica amministrazione che squillano a vuoto per ore, ai travet che si danno malati per andare a giocare a calcetto, ai premi di produttività assegnati anche se usi l’ufficio solo per trastullarti su Facebook, ai consulenti strapagati per mettere ovvietà nero su bianco. Brunetta è la speranza dei poveri fessi che si riconoscono nella definizione di Giuseppe Prezzolini: «Se uno paga il biglietto intero in ferrovia, non entra gratis a teatro; non ha un commendatore zio, amico della moglie e potente nella magistratura, nella Pubblica Istruzione ecc.; non è massone o gesuita; dichiara all’agente delle imposte il suo vero reddito; mantiene la parola data anche a costo di perderci ecc., questi è un fesso». E i primi a brindare alla rottamazione del ministro sarebbero proprio gli assenteisti, i parassiti e i figli di buona donna. Categorie presenti ovunque, ma che nella pubblica amministrazione avevano trovato l’ecosistema perfetto per crescere e moltiplicarsi, e non vedono l’ora di ricominciare.
Il problema di Brunetta (e quindi di noialtri fessi che tifiamo per lui) è che il segnale della svolta l’ha dato davvero. Il crollo delle assenze negli uffici pubblici è reale, la paura di essere licenziati se si viene scoperti in palestra durante gli orari d’ufficio è concreta. Certo, è vero anche che le sue prede si sono sapute adeguare al nuovo clima. In alcune città del Sud, ad esempio, dopo il solito calo delle assenze per malattia (il cosiddetto “effetto Brunetta”), è apparso un aumento di assenze dovute ad altri motivi, come i permessi per accompagnare gli invalidi. Ma questo, semmai, è un motivo in più per gridare «forza Renato».
Gli italiani lo hanno capito. I sondaggi gli attribuiscono la fiducia del 58 per cento degli elettori: molto diffusa tra quelli di centrodestra, ma ragguardevole pure sulla sponda opposta. Riceve standing ovation nei posti più impensabili, tipo il congresso della Cisl, dove è stato interrotto decine di volte dagli applausi. Brunetta, che ha tanti difetti ma non quello della falsa modestia, ogni volta che può spara contro avversari e alleati questi e gli altri dati che confermano il suo consenso. Ha scritto un libro, intitolato “Rivoluzione in corso”, per illustrare la sua missione: «Cambiare si può, quindi si ha il dovere di farlo». E le invidie sono aumentate.
I risultati si vedono. Da qualche tempo va di moda dipingere Brunetta ora come un Don Chisciotte, ora come un millantatore. L’ultimo a provarci, ieri, è stato l’Espresso, che gli ha dedicato la copertina, il titolo “Brunetta bluff” e un’inchiesta che il ministro, con la pignoleria che gli è propria, si è divertito a smontare pezzo per pezzo. Ma l’Espresso appartiene al gruppo di Carlo De Benedetti e una simile imboscata fa parte dei giochi. Diverso il caso del Corriere della Sera, che dieci giorni fa ha pubblicato un articolo per denunciare «i dubbi tra i colleghi di governo sulla strategia degli annunci» di Brunetta. Articolo che seguiva un’intervista rilasciata dal ministro al Sole-24 Ore, che aveva creato qualche mal di pancia nell’esecutivo. Non è un mistero, del resto, che i rapporti tra lui e Giulio Tremonti non siano proprio idilliaci («Siamo caratteri puntuti», ironizza Brunetta nel suo libro). Anche se può contare su diversi amici nella maggioranza e nell’esecutivo, nessuno sinora ha sentito il bisogno di difenderlo.
Ma perdere uno così, per ciò che rappresenta, sarebbe la normalizzazione definitiva del governo Berlusconi. Ovvero il preludio della fine. La sinistra lo sa, ed è per questo che, dopo il premier, si accanisce su di lui. Dovrebbe bastare questo per far capire ai suoi tiepidi alleati e colleghi che salvare il soldato Brunetta conviene anche a loro.
© Libero. Pubblicato il 12 settembre 2009.