L'omicidio di Sanaa e la "cittadinanza breve"
di Fausto Carioti
Hai voglia a dire, come fa il deputato finiano Fabio Granata, che il padre marocchino e islamico che ha ucciso la figlia, Sanaa Dafani, perché conviveva con un ragazzo italiano, «era residente legittimamente in Italia da oltre otto anni e con l’attuale normativa sarebbe diventato cittadino automaticamente». E che quindi «mescolare cittadinanza e fatti di criminalità rappresenta una grande operazione di disonestà intellettuale». A parte il fatto che la legge in vigore di anni di residenza, per ottenere la cittadinanza, ne richiede dieci, e che anche trascorsi questi non c’è nulla di «automatico», tanto che prima che il passaporto italiano venga concesso passano almeno altri due anni per fare i dovuti accertamenti. A parte questo, si diceva, Granata, presentatore della proposta di legge che punta a dimezzare i termini per la concessione della cittadinanza, portandoli a cinque anni di residenza, ha capito che l’omicidio di Pordenone rischia di diventare materiale incandescente dal punto di vista politico. E tenta di sterilizzare la polemica. Il problema, però, è giusto porselo. Senza limitarsi alla questione temporale, che pure è importante (più tempo uno risiede in Italia, migliore si presume possa essere la sua integrazione), e andando al cuore della questione: quando è che uno straniero diventa italiano? Cosa deve fare per dimostrare di meritare la nostra cittadinanza?
Le cronache ci dicono che lo sgozzatore, El Katawi Dafani, ha 45 anni, veste come un italiano, è un gran lavoratore e ha altre due figlie educatissime. Niente di nuovo: cose simili si dissero anche del padre della povera Hina Saleem, che per motivi identici nel 2006 ricevette dal padre lo stesso trattamento riservato a Sanaa. Persino gli attentatori islamici dell’11 settembre e quelli che hanno realizzato le stragi a Londra nel luglio del 2005, si è scoperto poi, avevano un aspetto tranquillizzante e «occidentalizzato». Ma non basta vestirsi come ci si veste nel Paese ospitante, vedere gli stessi film, ascoltare la stessa musica e lavorare sodo per essere "integrati". Occorre di più. E se questo è valido per tutti gli immigrati, per gli islamici lo è a maggior ragione.
Basta vedere gli studi realizzati regolarmente nei Paesi europei di più antica immigrazione. Un sondaggio commissionato nel Regno Unito dall’emittente Channel 4 dimostra che il 30% degli islamici con passaporto di Sua Maestà preferirebbe vivere sotto la sharia che sotto l’ordinamento inglese, mentre il 28% di loro è convinto che un giorno la Gran Bretagna diventerà uno Stato islamico e il 68% ritiene giusto condannare i loro concittadini inglesi che insultano l’Islam. In un altro sondaggio, dinanzi alla domanda: «Cosa ti consideri innanzitutto, un musulmano o un cittadino del tuo Paese?» l’81% degli islamici inglesi ha risposto di considerarsi islamico. Migliori, ma di poco, i risultati dei sondaggi condotti tra i musulmani francesi.
Insomma, anche se è politicamente scorretto ammetterlo, esiste un problema con il Corano. Libro in base al quale in ampie zone del mondo, ancora oggi, vengono perseguitati gli apostati, è impedito l’esercizio di altre religioni, sono lapidate le adultere, trattate come esseri umani di seconda categoria le donne e impiccati gli omosessuali. Usanze che iniziano a essere importate anche in Europa: nella Amsterdam un tempo tollerantissima il pestaggio delle coppie omosessuali è diventato sport diffuso da parte delle gang di immigrati musulmani. E in casa nostra le ragazze che adottano comportamenti contrari ai precetti del Profeta rischiano di fare la fine di Hina e Sanaa.
Davanti a un’immigrazione in gran parte islamica e viste le difficoltà a integrarsi incontrate dalle comunità musulmane in tutta Europa, dal legislatore è giusto pretendere un eccesso di prudenza, prima della concessione della cittadinanza italiana. Tempi non brevi, e soprattutto controlli accurati su cosa passa per la testa di chi chiede il nostro passaporto. Perché diventare cittadini italiani non è un "diritto" che si acquisisce, come ormai dicono tutti a sinistra e tanti a destra, ma un onore che deve essere sudato e meritato. Apparire «italiani» o vivere qui da otto anni non basta. Il padre di Sanaa, il suo sgozzatore, è lì a ricordarcelo. È l’unica lezione che possiamo trarre da questa brutta storia.
© Libero. Pubblicato il 17 settembre 2009.
Hai voglia a dire, come fa il deputato finiano Fabio Granata, che il padre marocchino e islamico che ha ucciso la figlia, Sanaa Dafani, perché conviveva con un ragazzo italiano, «era residente legittimamente in Italia da oltre otto anni e con l’attuale normativa sarebbe diventato cittadino automaticamente». E che quindi «mescolare cittadinanza e fatti di criminalità rappresenta una grande operazione di disonestà intellettuale». A parte il fatto che la legge in vigore di anni di residenza, per ottenere la cittadinanza, ne richiede dieci, e che anche trascorsi questi non c’è nulla di «automatico», tanto che prima che il passaporto italiano venga concesso passano almeno altri due anni per fare i dovuti accertamenti. A parte questo, si diceva, Granata, presentatore della proposta di legge che punta a dimezzare i termini per la concessione della cittadinanza, portandoli a cinque anni di residenza, ha capito che l’omicidio di Pordenone rischia di diventare materiale incandescente dal punto di vista politico. E tenta di sterilizzare la polemica. Il problema, però, è giusto porselo. Senza limitarsi alla questione temporale, che pure è importante (più tempo uno risiede in Italia, migliore si presume possa essere la sua integrazione), e andando al cuore della questione: quando è che uno straniero diventa italiano? Cosa deve fare per dimostrare di meritare la nostra cittadinanza?
Le cronache ci dicono che lo sgozzatore, El Katawi Dafani, ha 45 anni, veste come un italiano, è un gran lavoratore e ha altre due figlie educatissime. Niente di nuovo: cose simili si dissero anche del padre della povera Hina Saleem, che per motivi identici nel 2006 ricevette dal padre lo stesso trattamento riservato a Sanaa. Persino gli attentatori islamici dell’11 settembre e quelli che hanno realizzato le stragi a Londra nel luglio del 2005, si è scoperto poi, avevano un aspetto tranquillizzante e «occidentalizzato». Ma non basta vestirsi come ci si veste nel Paese ospitante, vedere gli stessi film, ascoltare la stessa musica e lavorare sodo per essere "integrati". Occorre di più. E se questo è valido per tutti gli immigrati, per gli islamici lo è a maggior ragione.
Basta vedere gli studi realizzati regolarmente nei Paesi europei di più antica immigrazione. Un sondaggio commissionato nel Regno Unito dall’emittente Channel 4 dimostra che il 30% degli islamici con passaporto di Sua Maestà preferirebbe vivere sotto la sharia che sotto l’ordinamento inglese, mentre il 28% di loro è convinto che un giorno la Gran Bretagna diventerà uno Stato islamico e il 68% ritiene giusto condannare i loro concittadini inglesi che insultano l’Islam. In un altro sondaggio, dinanzi alla domanda: «Cosa ti consideri innanzitutto, un musulmano o un cittadino del tuo Paese?» l’81% degli islamici inglesi ha risposto di considerarsi islamico. Migliori, ma di poco, i risultati dei sondaggi condotti tra i musulmani francesi.
Insomma, anche se è politicamente scorretto ammetterlo, esiste un problema con il Corano. Libro in base al quale in ampie zone del mondo, ancora oggi, vengono perseguitati gli apostati, è impedito l’esercizio di altre religioni, sono lapidate le adultere, trattate come esseri umani di seconda categoria le donne e impiccati gli omosessuali. Usanze che iniziano a essere importate anche in Europa: nella Amsterdam un tempo tollerantissima il pestaggio delle coppie omosessuali è diventato sport diffuso da parte delle gang di immigrati musulmani. E in casa nostra le ragazze che adottano comportamenti contrari ai precetti del Profeta rischiano di fare la fine di Hina e Sanaa.
Davanti a un’immigrazione in gran parte islamica e viste le difficoltà a integrarsi incontrate dalle comunità musulmane in tutta Europa, dal legislatore è giusto pretendere un eccesso di prudenza, prima della concessione della cittadinanza italiana. Tempi non brevi, e soprattutto controlli accurati su cosa passa per la testa di chi chiede il nostro passaporto. Perché diventare cittadini italiani non è un "diritto" che si acquisisce, come ormai dicono tutti a sinistra e tanti a destra, ma un onore che deve essere sudato e meritato. Apparire «italiani» o vivere qui da otto anni non basta. Il padre di Sanaa, il suo sgozzatore, è lì a ricordarcelo. È l’unica lezione che possiamo trarre da questa brutta storia.
© Libero. Pubblicato il 17 settembre 2009.