Disney & Marvel, primo matrimonio dell'era Obama

di Fausto Carioti

L’America liberal e politicamente corretta di Barack Obama ha trovato il grande gruppo multimediale nel quale specchiarsi. Ieri la Walt Disney ha acquistato la Marvel Entertainment (quella dell’Uomo Ragno, i Fantastici Quattro, Iron Man e altri cinquemila personaggi) per quattro miliardi di dollari. I fan delle due sponde già temono di dover assistere a improbabili sfide tra Hulk e Pippo (ipotesi peraltro già smentita dalla Disney) e si chiedono come una simile unione possa essere possibile. Ma la verità è che i due gruppi sono ambedue il riflesso di quell’America democratica, “inclusiva” e multietnica che qualche mese fa è giunta al potere con Obama.

Della Disney il grande pubblico sa ogni cosa. Compreso il fatto che il suo fondatore odiasse i comunisti e, a partire dagli anni Quaranta, avesse collaborato con il capo del Fbi, Edgar Hoover, anche segnalandogli alcuni «sovversivi» di Hollywood. La Disney moderna, però, è tutt’altra cosa. Il gruppo, che ha la sede centrale a Burbank, in California, con un gesto clamoroso - era il 1995 - fu tra i primi a riconoscere le coppie omosessuali, estendendo ai conviventi gay i benefici dell’assicurazione sanitaria sino ad allora riservati ai familiari dei dipendenti. Nel 2007 è stato consentito alle coppie gay di sposarsi nei parchi Disney della Florida e della California, o sulle navi da crociera della compagnia.

Alla casa di Topolino si deve anche l’importazione di eroi ed eroine “etnici” nel mondo fiabesco occidentale: la cinese Mulan, l’indiana Pocahontas, l’arabo Aladdin e la principessa Jasmine… Il messaggio che si ricava da questi film è chiaro e diretto: non esistono una tradizione, una cultura migliori delle altre. E a dicembre sarà il turno della “Principessa e il ranocchio”, che ha per protagonista una ragazza africana. Un cartone che era in produzione da tempo, ma che - guarda caso - arriva al momento giusto per festeggiare il primo Natale di Obama alla Casa Bianca.

Con la Marvel il discorso è più complesso, anche perché si rivolge a un pubblico adulto. Nata nel 1939 come Timely Publications, alla fine del secolo scorso sembrava destinata a chiudere, tanto che nel 1996 fu costretta a dichiarare bancarotta. Nel 1997 fu rilevata dal finanziere Isaac Perlmutter. È stato lui a farla diventare una vera e propria “Disney per adulti”, lanciando i supereroi Marvel in una lunga serie di pellicole di successo. Dal fumetto al film, da questo ai videogiochi e al merchandising: personaggi che sembravano decotti sono stati trasformati così in una fabbrica di dollari.

Nella buona come nella cattiva sorte, però, la Marvel non ha mai smesso di essere la trasposizione su carta delle ansie e delle aspirazioni americane. È anche sulle sue pagine che si è formato l’immaginario collettivo statunitense. O almeno di una parte di esso. A questo punto ci sarebbe una storia da raccontare, che riguarda la coppia più famosa del fumetto mondiale: Stan Lee e Jack Kirby, il tandem creativo che a partire dagli anni Quaranta gettò le basi per fare grande la Marvel. L’inventore di quei supereroi che oggi valgono miliardi di dollari era Kirby. Il «re dei comics», come era chiamato, morì però nel 1994 senza un centesimo in tasca, tanto che la sua vedova dovette chiedere alla Marvel un vitalizio per campare. L’altro, Stan Lee, aveva iniziato a lavorare perché nipote di un manager della Timely Comics, e visse per decenni aggrappato al più dotato Kirby. Manco a dirlo, soldi e gloria sono andati tutti a lui. Lee è da sempre un sostenitore del partito democratico, tanto da suscitare il commento perfido dello scrittore conservatore Mark Steyn: «Per quale altro motivo credete che gli eroi dei fumetti abbiamo rinunciato alla verità, alla giustizia e allo stile di vita americano per starsene seduti sui tetti, come l’Uomo Ragno, a chiedersi se i loro meravigliosi poteri siano una benedizione o una iattura?».

La Marvel è stata sempre brava a intercettare gli umori della pancia degli States. Nella seconda metà degli anni Sessanta, mentre in America divampava la questione razziale, la “Casa delle idee” sfornò una serie di supereroi di colore, il più noto dei quali si chiamava Pantera Nera. Porta l’etichetta della Marvel anche il primo supereroe dichiaratamente gay: era il 1992 e lui si chiamava Northstar. Tutto questo, sia chiaro, un po’ per adesione convinta alle nuove tendenze, un po’ per banali ragioni di business. Dopo l’11 settembre 2001, però, la scelta di campo è stata netta. Sono spuntate due super eroine islamiche, una delle quali, la pakistana Faiza Hussain, diventa nientemeno che la custode di Excalibur, spada di re Artù e simbolo della Gran Bretagna: metafora perfetta dell’islamizzazione dell’Europa, che per per la Marvel sembra un fatto tutto sommato auspicabile.

Soprattutto, in un’America divisa tra chi pensa che il prezzo da pagare per la sicurezza sia la rinuncia a qualche libertà (la posizione dell’amministrazione Bush) e chi crede che non si debbano violare certe regole nemmeno per salvare vite umane (ed è la linea di Obama), la Marvel si è schierata con i secondi. Nel più grande evento fumettistico degli ultimi decenni, Civil War, la comunità degli eroi è spaccata in due, ma subito si capisce che i “buoni” sono quelli che non accettano di scambiare libertà con sicurezza.

Nell’ultimo periodo dell’era Bush Capitan America, il simbolo stesso del Paese (nacque nel 1941 come fumetto di propaganda) viene addirittura fatto uccidere. Torna adesso, resuscitato, ed è difficile non leggere nella sua rinascita una metafora della nuova America di Obama. Il quale, per inciso, è apparso a gennaio in una storia dell’Uomo Ragno, figurando pure in copertina, in quella che può considerarsi una delle più grosse marchette della storia del fumetto.

© Libero. Pubblicato il 1 settembre 2009.

Post scriptum. Il mio amico Vittorio Macioce, sul Giornale, oggi scrive dello stesso argomento. E racconta il seguente aneddoto:
Sono passati un po’ di anni. Quel giorno Raimondo Luraghi, professore di storia americana, lunghi capelli bianchi, da vecchio gentiluomo sudista, come un Robert Edward Lee capitato per caso a Roma, si mise a parlare della civiltà sioux, navajo e apache. Non era una cosa normale, di solito si sta lì a discutere le tattiche di guerra degli yankee a Gettysburg. E invece se ne uscì con una domanda assurda: qualcuno di voi conosce la cintura Wampum? Silenzio. Qualcuno azzardò: boh, sarà un jeans. Risate. Alzai la mano. È la cintura della grande fratellanza, un simbolo di pace e riconoscimento indossato dai capi indiani. Brusio. Ma che cavolo ne sai? Queste cose di solito non si imparano sui libri di scuola. Un mio amico e collega, oggi vice direttore romano di un quotidiano con cui condividiamo qualche lettore, parlò come al solito con il vocione e disse: «Tranquilli, è Tex». Aveva ragione, certe notizie le leggi e le prendi prima di tutto su Tex, poi magari ti studi il resto, la nascita delle corazzate, il ruolo dei free soilers nella disputa politica che frantumò l’America e la fece sanguinare, la zuppa Campbell, la grande depressione e «This land is my land».
Chi sostiene che noialtri giornalisti italiani scriviamo per parlare tra di noi dei fatti nostri ha assolutamente ragione.

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