Quando il divorzio è maturo

di Fausto Carioti

L'"outing" risale a tre anni fa. Nell’ottobre del 2006 Gianfranco Fini lasciò basiti tutti - gli esponenti di An per primi - bocciando come «becera propaganda antislamica» il film di Renzo Martinelli "Il Mercante di Pietre", che affrontava l’argomento del terrorismo musulmano e nel quale di inventato, peraltro, non c’era proprio nulla. Da allora il Fini-pensiero di strada ne ha fatta tanta - tutta verso sinistra - e oggi nessuno si stupisce più nel vedere l’ex ragazzo in camicia nera in prima fila tra i sacerdoti del politicamente corretto, coccolato da Repubblica e dall’Unità. Tanto che lo scontro verbale degli ultimi giorni con Umberto Bossi sull’immigrazione - materia su cui i due avevano legiferato insieme sette anni or sono - fa notizia più per la durezza delle parole che non per la sostanza politica, ormai risaputa. Ma quando i litigi sono quotidiani e i toni si fanno così duri, ultimativi, e su argomenti tanto importanti, qualcuno farebbe bene a trarne le conseguenze. Se ogni giorno i piatti volano da una parte all’altra del salotto, anche nelle migliori famiglie è lecito iniziare a parlare di divorzio.

L’immigrazione è la sfida principale che il nostro Paese è chiamato ad affrontare nei prossimi decenni, ed è un tema che agli elettori interessa assai più delle punzecchiature lanciate da Fini a Silvio Berlusconi su mafia e grembiulini massonici. Queste possono scaldare gli animi dei protagonisti, perché Berlusconi si sente ferito da simili illazioni e i suoi fanno quadrato attorno a lui. Ma il volto futuro dell’Italia lo deciderà il modo in cui accoglieremo gli stranieri che da mezzo mondo bussano alle nostre porte. Quanti ne faremo entrare? Quali requisiti dovranno avere per diventare prima ospiti e poi cittadini italiani? A quale modello di cittadinanza chiederemo loro di adeguarsi? La risposta di Fini a tutte queste domande appare ispirata al criterio della carità, che ci impone di aiutare tutti quelli che sono in difficoltà, senza distinzioni e senza badare al loro numero. E la concessione dei diritti agli immigrati, ha detto ieri il presidente della Camera, è necessaria per la loro integrazione, altrimenti assistiamo al «suicidio della ragione e della civiltà cristiana».

Quella di Fini è una risposta a Bossi, che venerdì l’aveva accusato di essere lui il suicida, giacché «uno che vuole riempire il Paese di immigrati non è molto tranquillizzante». La ricetta della Lega e del resto del PdL, infatti, è opposta a quella della terza carica dello Stato. Non possiamo fare entrare nel nostro Paese tutti quelli che lo vogliono: dobbiamo operare una rigida selezione, per quanto poco caritatevole possa sembrare. Anche perché aprire le porte agli intolleranti, come si è visto in Olanda e in altri paesi europei, rischia di ridurre le libertà di tutti nel breve giro di una generazione. E i diritti degli immigrati, come avviene negli Stati Uniti, non debbono essere la causa della loro integrazione in Italia, ma l’effetto: prima dimostrano di essersi integrati da un punto di vista culturale ed economico nel nostro Paese, dopo vedono riconosciuti i loro diritti. Se non sono d’accordo, i diritti se li vadano a cercare in casa loro. Non ci sono dubbi che questa sia anche la posizione degli elettori che hanno mandato Berlusconi al governo.

Fini e i suoi hanno ragione a sostenere che il PdL non è una caserma e a rivendicare il diritto di dire a voce alta quello che pensano. Ma se quello che dicono su temi tanto importanti non ha più nulla a che vedere con quello che dice il resto del centrodestra, che accusano di essere «la negazione della ragione e della civiltà cristiana», vuol dire che la distanza è incolmabile e che siamo arrivati al punto in cui un divorzio consensuale farebbe bene a tutti. A Fini per primo, al quale ammiratori e aspiranti alleati non mancano. Come si è visto ieri agli stati generali dell’Udc e come si vede ogni giorno leggendo i quotidiani ostili al governo.

© Libero. Pubblicato il 13 settembre 2009.

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