Primo miracolo di Obama: la riabilitazione di Bush
di Fausto Carioti
La riabilitazione di George W. Bush sta avvenendo prima di quanto si potesse prevedere. E il merito è tutto del suo successore, Barack Obama. Il Messia che avrebbe dovuto rivoluzionare le nostre vite sinora è riuscito solo a cambiare la percezione che gran parte del consorzio umano aveva di Bush. Il quale, neanche un anno dopo l'addio alla Casa Bianca, sta dimostrando di avere azzeccato almeno la sua scommessa più grossa: il conflitto in Iraq. In Mesopotamia parlare di pacificazione in atto, e quindi di missione in via di riuscita, oggi non è più un azzardo. Mentre Obama, sino ad adesso, in politica estera non è stato baciato dal successo. A partire dall'altra guerra, quella in Afghanistan, nella quale ha investito tutta la sua credibilità senza produrre, sinora, alcun risultato. Mentre Israele e i Paesi dell'est europeo, in teoria i più interessati a un rapporto stretto con gli Stati Uniti, scrutano con inquietudine crescente le mosse della Casa Bianca.
Bush, a conti fatti, il suo dovere l'ha fatto, e di fronte aveva sfide enormi. Ma, alla fine, Al Qaeda è stata messa all'angolo; Bin Laden, se è vivo, passa i suoi giorni nascosto; l'ipotesi di un attentato terroristico sul territorio degli Stati Uniti appare improbabile; l'Iraq si sta avviando a essere un posto decente. Da quando si è insediato il suo successore, invece, il mondo è diventato un posto meno sicuro.
L'Afghanistan si conferma di essere un verminaio (ieri è rispuntato il mullah Omar per dire che il suo Paese è stato la tomba degli invasori «dai tempi dell'aggressione di Alessandro»), ma il nuovo presidente americano non sembra avere in mano la situazione. È stretto tra il martello dei vertici militari, che chiedono più soldati, e l'incudine dell'opinione pubblica, contraria a spedire altri marines. Un atteggiamento che irrita anche i pacifisti. Ieri il regista Michael Moore ha attaccato Obama: «Deve decidere se quella in Afghanistan è una guerra di Bush o una guerra sua. Sembra sia diventata la sua». A modo suo, il simpatico grassone coglie un aspetto decisivo: per una superpotenza non avere una direzione chiara è peggio che averne una sbagliata.
L'Iran intanto tira dritto. Entro il 2010 i suoi impianti avranno prodotto abbastanza uranio arricchito da poter costruire una testata atomica. Allarmato, il think tank Bipartisan Policy Center, nei giorni scorsi, ha consegnato a Obama un rapporto in cui si legge che «un Iran dotato di armi nucleari non solo rappresenterebbe una minaccia per gli Stati Uniti e i suoi alleati. Incoraggerebbe i gruppi terroristici sponsorizzati dall'Iran, destabilizzerebbe la regione, sconvolgerebbe i mercati globali dell'energia e innescherebbe un'onda di proliferazione nucleare in tutto il Medio Oriente». Il consiglio a Obama è di rompere immediatamente gli indugi: «Solo una credibile minaccia militare da parte degli Stati Uniti può rendere possibile una soluzione pacifica». Il presidente americano punta invece deciso sulla soluzione diplomatica: il primo ottobre, in Turchia, inizieranno i colloqui con l'Iran. Il cui governo, però, ha già fatto sapere che intende parlare di tutto, tranne che di rinunciare al programma nucleare.
L'opinione pubblica israeliana ha già identificato Obama come il vero nemico: troppo incline a schierarsi con i palestinesi della West Bank, troppo inerte davanti alle minacce iraniane. E lo stato di Israele, messo nel mirino dal presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad, ha capito che dovrà cavarsela da solo. Il piano per bombardare le installazioni nucleari iraniane è pronto da tempo. Secondo il Wall Street Journal l'attacco avverrà entro la primavera, comunque prima che in Iran arrivino le batterie antiaeree russe S-300 promesse da Vladimir Putin, che renderebbero proibitivo il blitz israeliano. «Sappiamo che il tempo sta finendo», ha detto nei giorni scorsi a Washington Yuval Steinitz, ministro delle Finanze israeliano.
L'unica decisione di politica internazionale presa sinora da Obama, la rinuncia alla scudo antimissile che il suo predecessore George W. Bush voleva installare nell'Europa orientale, ha già creato una frattura con Polonia e Repubblica Ceca, che accettando di ospitare le installazioni di difesa statunitensi avevano sfidato le ire della Russia, e ora accusano Obama di averle abbandonate. La prossima volta, loro e gli altri Paesi dell'est europeo ci penseranno bene prima di fare qualcosa per gli americani.
Il voltafaccia sullo scudo è stato deciso da Obama per ricucire i rapporti con Mosca e avere il via libera del consiglio di sicurezza dell'Onu alle nuove sanzioni che gli Stati Uniti vogliono proporre contro l'Iran, se proseguirà la sua corsa nucleare. La Russia però intende mettere il veto e Sergei Lavrov, ministro degli Esteri, ha assicurato che nemmeno la rinuncia allo scudo antimissile può convincere il suo governo a cambiare idea. Vedremo se è vero. Di sicuro, alla Russia l'instabilità creata dall'Iran di Ahmadinejad piace, se non altro perché spinge all'insù i prezzi del petrolio e del gas, che per il Cremlino sono l'unica vera fonte di guadagno. Il gioco, insomma, si sta facendo duro, e presto si capirà se Obama è abbastanza duro da poter giocare. Al momento, dubitare è lecito.
© Libero. Pubblicato il 20 settembre 2009.
La riabilitazione di George W. Bush sta avvenendo prima di quanto si potesse prevedere. E il merito è tutto del suo successore, Barack Obama. Il Messia che avrebbe dovuto rivoluzionare le nostre vite sinora è riuscito solo a cambiare la percezione che gran parte del consorzio umano aveva di Bush. Il quale, neanche un anno dopo l'addio alla Casa Bianca, sta dimostrando di avere azzeccato almeno la sua scommessa più grossa: il conflitto in Iraq. In Mesopotamia parlare di pacificazione in atto, e quindi di missione in via di riuscita, oggi non è più un azzardo. Mentre Obama, sino ad adesso, in politica estera non è stato baciato dal successo. A partire dall'altra guerra, quella in Afghanistan, nella quale ha investito tutta la sua credibilità senza produrre, sinora, alcun risultato. Mentre Israele e i Paesi dell'est europeo, in teoria i più interessati a un rapporto stretto con gli Stati Uniti, scrutano con inquietudine crescente le mosse della Casa Bianca.
Bush, a conti fatti, il suo dovere l'ha fatto, e di fronte aveva sfide enormi. Ma, alla fine, Al Qaeda è stata messa all'angolo; Bin Laden, se è vivo, passa i suoi giorni nascosto; l'ipotesi di un attentato terroristico sul territorio degli Stati Uniti appare improbabile; l'Iraq si sta avviando a essere un posto decente. Da quando si è insediato il suo successore, invece, il mondo è diventato un posto meno sicuro.
L'Afghanistan si conferma di essere un verminaio (ieri è rispuntato il mullah Omar per dire che il suo Paese è stato la tomba degli invasori «dai tempi dell'aggressione di Alessandro»), ma il nuovo presidente americano non sembra avere in mano la situazione. È stretto tra il martello dei vertici militari, che chiedono più soldati, e l'incudine dell'opinione pubblica, contraria a spedire altri marines. Un atteggiamento che irrita anche i pacifisti. Ieri il regista Michael Moore ha attaccato Obama: «Deve decidere se quella in Afghanistan è una guerra di Bush o una guerra sua. Sembra sia diventata la sua». A modo suo, il simpatico grassone coglie un aspetto decisivo: per una superpotenza non avere una direzione chiara è peggio che averne una sbagliata.
L'Iran intanto tira dritto. Entro il 2010 i suoi impianti avranno prodotto abbastanza uranio arricchito da poter costruire una testata atomica. Allarmato, il think tank Bipartisan Policy Center, nei giorni scorsi, ha consegnato a Obama un rapporto in cui si legge che «un Iran dotato di armi nucleari non solo rappresenterebbe una minaccia per gli Stati Uniti e i suoi alleati. Incoraggerebbe i gruppi terroristici sponsorizzati dall'Iran, destabilizzerebbe la regione, sconvolgerebbe i mercati globali dell'energia e innescherebbe un'onda di proliferazione nucleare in tutto il Medio Oriente». Il consiglio a Obama è di rompere immediatamente gli indugi: «Solo una credibile minaccia militare da parte degli Stati Uniti può rendere possibile una soluzione pacifica». Il presidente americano punta invece deciso sulla soluzione diplomatica: il primo ottobre, in Turchia, inizieranno i colloqui con l'Iran. Il cui governo, però, ha già fatto sapere che intende parlare di tutto, tranne che di rinunciare al programma nucleare.
L'opinione pubblica israeliana ha già identificato Obama come il vero nemico: troppo incline a schierarsi con i palestinesi della West Bank, troppo inerte davanti alle minacce iraniane. E lo stato di Israele, messo nel mirino dal presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad, ha capito che dovrà cavarsela da solo. Il piano per bombardare le installazioni nucleari iraniane è pronto da tempo. Secondo il Wall Street Journal l'attacco avverrà entro la primavera, comunque prima che in Iran arrivino le batterie antiaeree russe S-300 promesse da Vladimir Putin, che renderebbero proibitivo il blitz israeliano. «Sappiamo che il tempo sta finendo», ha detto nei giorni scorsi a Washington Yuval Steinitz, ministro delle Finanze israeliano.
L'unica decisione di politica internazionale presa sinora da Obama, la rinuncia alla scudo antimissile che il suo predecessore George W. Bush voleva installare nell'Europa orientale, ha già creato una frattura con Polonia e Repubblica Ceca, che accettando di ospitare le installazioni di difesa statunitensi avevano sfidato le ire della Russia, e ora accusano Obama di averle abbandonate. La prossima volta, loro e gli altri Paesi dell'est europeo ci penseranno bene prima di fare qualcosa per gli americani.
Il voltafaccia sullo scudo è stato deciso da Obama per ricucire i rapporti con Mosca e avere il via libera del consiglio di sicurezza dell'Onu alle nuove sanzioni che gli Stati Uniti vogliono proporre contro l'Iran, se proseguirà la sua corsa nucleare. La Russia però intende mettere il veto e Sergei Lavrov, ministro degli Esteri, ha assicurato che nemmeno la rinuncia allo scudo antimissile può convincere il suo governo a cambiare idea. Vedremo se è vero. Di sicuro, alla Russia l'instabilità creata dall'Iran di Ahmadinejad piace, se non altro perché spinge all'insù i prezzi del petrolio e del gas, che per il Cremlino sono l'unica vera fonte di guadagno. Il gioco, insomma, si sta facendo duro, e presto si capirà se Obama è abbastanza duro da poter giocare. Al momento, dubitare è lecito.
© Libero. Pubblicato il 20 settembre 2009.