Quanto ci è costato dire "no" al nucleare

di Fausto Carioti

La verità è che un paese industrializzato senza energia nucleare è un ossimoro, un’anomalia possibile solo nel breve periodo, incapace di resistere su tempi più lunghi. Tanto più se questo paese è privo di giacimenti di combustibili fossili. Del resto, basta dare uno sguardo ai paesi più industrializzati del mondo. Gli Stati Uniti hanno 104 reattori nucleari in funzione, ed è già stata annunciata la costruzione di altri sette. La Cina ha undici reattori attivi, cinque in arrivo e ben trenta pianificati. Il Giappone conta su 55 reattori nucleari operativi, destinati presto a diventare 68. Trentadue reattori ha oggi la Germania, 19 il Regno Unito, 59 la Francia, 18 il Canada, 31 la Russia e 17 l’India. Ad eccezione della Germania e del Regno Unito, che comunque già ricavano dall’atomo, rispettivamente, il 32% e il 18% della loro energia elettrica, tutti questi Paesi hanno in calendario la costruzione di nuovi impianti. Una sola, tra le potenze industriali, spicca per non avere né reattori nucleari attivi, né in costruzione, né in programma. E’ anche il Paese con il costo dell’elettricità più alto e con le peggiori performance economiche tra tutte le nazioni industrializzate. Non è un caso: i tre record sono legati tra loro. Benvenuti in Italia, unico Paese al mondo che ha rinunciato dalla sera alla mattina alle proprie centrali nucleari. E, con esse, a una parte importante del proprio futuro.

Il caso del Giappone è istruttivo perché, quanto a disponibilità di risorse, assomiglia molto all’Italia. Il governo di Tokyo ha avviato la sua prima centrale nucleare nel 1966. “Essendo il paese privo di risorse naturali”, spiega l’associazione dei produttori d’elettricità nipponici, “la nostra nazione deve contare sulle importazioni per circa l’80% del suo fabbisogno di energia primaria. Inoltre, come le due crisi petrolifere hanno dolorosamente dimostrato in passato, affidarsi a una sola fonte può destabilizzare fortemente le forniture di energia. Il nucleare, quindi, diversifica le fonti di approvvigionamento, aumentando la sicurezza energetica della nazione”. Eppure c’è chi sta peggio, ma ogni volta che qualcuno sussurra di riaprire le centrali atomiche, registra più dichiarazioni di sdegno che segnali d’incoraggiamento. E’ un altro primato dell’Italia, il paese industrializzato con la maggiore dipendenza energetica dall’estero: acquista oltre i propri confini l’85% dell’energia che gli consente di sopravvivere. Buona parte di questa giunge sotto forma di elettricità, che per il 18% è prodotta da centrali nucleari francesi e svizzere, ovviamente vicine ai nostri confini.

Inutile, insomma, arrovellarsi sulle ragioni del declino italiano se non si parte dal dato che è alla base dell’economia: il nostro paese produce elettricità ricorrendo per il 61% a petrolio e gas, mentre il resto d’Europa si affida per il 62% al carbone e al nucleare, riservando agli idrocarburi, costosi e soggetti ai rischi delle tensioni internazionali, un ruolo residuale, pari al 25% del totale della generazione di elettricità.

Il risultato è che nel 2007 le imprese italiane hanno pagato 11,66 euro per avere cento chilowattora. La stessa fornitura di elettricità è costata 9,79 euro alle imprese tedesche, 7,72 euro a quelle inglesi e appena 5,08 euro ai concorrenti francesi. Stessa stangata per le famiglie: cento chilowattora pesano 21,97 euro nella bolletta degli italiani, 18,06 euro su quella dei tedeschi, 13,17 per gli inglesi e 11,74 per le famiglie transalpine. Notare che il prezzo pagato è inversamente proporzionale all’uso dell’energia nucleare nei rispettivi Paesi: maggiore la quota di elettricità ricavata dall’atomo, minore il prezzo pagato dai consumatori. Il divario si allarga man mano che sale il prezzo del petrolio, e a fine 2008 sarà ben più ampio. Già a partire da aprile, in seguito al rincaro del greggio, il costo della bolletta elettrica è salito del 4,1%: altri 18 euro l’anno a famiglia, immolati sull’altare della rinuncia al nucleare.

Il paradosso è che per acquistare energia a prezzo sempre più caro, e vedere le proprie imprese essere sempre meno competitive nei confronti dei concorrenti stranieri, l’Italia ha speso e continua a spendere soldi. Il solo costo della sostituzione dell’energia atomica con quella prodotta bruciando idrocarburi fu stimato dall’Enel, alla fine del 1986, in 121mila miliardi di lire. Ma allora il greggio viaggiava attorno ai 10 dollari al barile, e l’Enel non poteva certo ipotizzare che 22 anni dopo avrebbe sfondato quota 100 dollari. «Con il petrolio che viaggia sui valori attuali», calcola Paolo Fornaciari, presidente onorario dell’Associazione nucleare italiana, «quel costo oggi può essere stimato in oltre 200 miliardi di euro».

Al conto bisogna poi aggiungere i costi di demolizione dei reattori. Per finanziare il “decommissioning”, cioè la decontaminazione e lo smantellamento delle quattro centrali nucleari italiane (Garigliano, Caorso, Trino Vercellese e Latina) da parte della Sogin Spa, avviati dopo il referendum del 1987, gli italiani, in questi ultimi decenni, hanno pagato un sovrapprezzo che l’authority per l’Energia, di recente, ha quantificato in 950 milioni di euro. E non è certo finita: al momento è stato fatto circa il 6% del lavoro, tanto che gli esperti ritengono ancora possibile il riavvio dei reattori di Caorso. Per accelerare il decommissioning i vertici della Sogin adesso contano di spendere 400 milioni di euro entro il 2011. A detta dei nuclearisti, è un progetto suicida: «Basterebbe una modesta frazione di quanto costa al contribuente lo smantellamento delle quattro centrali per mettere in funzione i reattori di Caorso e Trino Vercellese», assicura Fornaciari.

Altri soldi li sborsiamo per assistere le cosiddette fonti rinnovabili: avendo rinunciato al nucleare, tecnologia che non immette gas serra nell’atmosfera, occorre ricorrere infatti alle rinnovabili per avvicinarsi agli irraggiungibili parametri del trattato di Kyoto. Ma si tratta di un’operazione economicamente in perdita, che deve essere finanziata con i soldi delle bollette. Secondo i conti dell’autorità per l’Energia, il costo del sostegno alle rinnovabili è pari a 6,5 miliardi di euro l’anno, la maggior parte dei quali - 3,5 miliardi – serve per finanziare la cosiddetta legge “Cip 6” del 1992, che impone allo Stato di acquistare l’elettricità prodotta da fonti rinnovabili o “assimilate”. Un provvedimento utile soprattutto a impinguare gli utili di società come la Saras, di proprietà della famiglia Moratti, che si fanno pagare dallo Stato per bruciare gli scarti delle loro raffinerie. L’energia prodotta in questo modo è tutt’altro che pulita, ma l’importante è far credere ai contribuenti che si stanno usando soldi pubblici per migliorare il mondo.

Il costo reale dell’abbandono del nucleare, in realtà, è stato ben più alto, poiché assieme alle quattro centrali atomiche si è detto addio a un capitale fatto soprattutto di cervelli e di “know how”, una filiera che aveva portato l’Italia a livelli d’eccellenza mondiale nel campo dell’atomo di pace. Merito di gente che sapeva mettere assieme una robusta visione strategica e solide conoscenze tecniche. Come Felice Ippolito, padre del progetto nucleare italiano, che il Pci, ancora non convertito all’ideologia ambientalista, nel 1984 orgogliosamente candidò e fece eleggere al parlamento di Strasburgo. Lo stesso Ippolito dai banchi del Pci, nel 1987, avvertiva gli altri europarlamentari che «una società industriale avanzata non può fare a meno del nucleare». Poche settimane dopo, inorridito dalla svolta verde del suo partito, Ippolito lasciò Botteghe Oscure per entrare nel Pri. Era il segnale che la sinistra italiana aveva chiuso l’era della pianificazione industriale per rifugiarsi nei comodi slogan dell’allarmismo ambientalista. Fu l’inizio del gioco allo sfascio. Altri, al centro e a destra, si comportarono allo stesso modo. Il prezzo di quelle scelte lo scontiamo ancora adesso e lo pagheremo a lungo.

(Articolo apparso originariamente sul bimestrale Con).

© Con. Pubblicato su Libero il 23 maggio 2008.

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