Prodi e il "niet" dei comunisti

di Fausto Carioti

Enrico Cuccia, l’uomo che ha creato Mediobanca e l’ha governata per oltre mezzo secolo, diceva che le azioni delle società quotate in Borsa non si dovevano contare, ma pesare, perché alcune, quelle del gotha del capitalismo italiano, erano più pesanti di altre. Storie del salotto buono. Palazzo Chigi di questi tempi più che un salotto sembra un manicomio, ma la morale è la stessa: alcuni azionisti, pur possedendo un pugno di azioni, contano molto più degli altri. Numeri alla mano, il “patto di sindacato” rappresentato da Rifondazione, Comunisti italiani e Verdi vale un quarto della maggioranza, ma le loro azioni, alla prova dei fatti, pesano più di quelle dei centristi e dei sedicenti riformisti. Se la riforma delle pensioni doveva essere la madre di tutte le rese dei conti, la partita che determinava chi comanda davvero nella maggioranza, ieri il verdetto è stato chiaro: l’asse anti-riformista che lega la sinistra dell’Unione ai sindacati confederali, e in particolare alla Cgil, è quello che condiziona la direzione del governo.

Franco Giordano e compagni hanno tenuto in ostaggio l’esecutivo per tutto il giorno. Chiusi nel bunker di Palazzo Chigi, ministri, sottosegretari, segretari di partito e sherpa si riunivano in incontri sempre più concitati per trovare un’intesa gradita agli uomini di Fausto Bertinotti. I quali, non contenti di portare a casa l’abolizione dello “scalone”, mettevano il loro veto su ogni dettaglio della riforma non compatibile con le teorie economiche del subcomandante Marcos. Consapevoli di avere in mano ciò che è più caro a Prodi, erano intenzionati a mantenere la presa ben salda. Così, a metà pomeriggio, appena il povero Piero Fassino assicurava ai microfoni che «l’accordo c’è ed è pronto», tempo pochi minuti gli pioveva sulla testa la smentita del bertinottiano Gennaro Migliore: «La trattativa non è chiusa». E quando, in serata, Prodi convocava i sindacati per le ore 22 a Palazzo Chigi, a indicare che per lui l’intesa politica era stata trovata, saltava su il solito Migliore: «Per noi l’accordo non c’è».

Intendiamoci. Qualche ragione politica, per maltrattare Prodi, i rifondaroli ce l’hanno. A pagina 169 del programma di governo dell’Unione si legge che obiettivo della coalizione è «eliminare l’inaccettabile “gradino” e la riduzione del numero delle finestre che innalzano bruscamente e in modo del tutto iniquo l’età pensionabile, come prevede per il 2008 la legge approvata dalla maggioranza di centrodestra». Si tratta di un punto inserito proprio su richiesta dei partiti di sinistra. Solo che Bertinotti e i suoi hanno preso l’impegno sottoscritto da Prodi molto sul serio. Il presidente del Consiglio, invece, consapevole che non può affossare più di tanto i conti della previdenza, ha creduto che il gradino del 2008 si potesse semplicemente “limare”, e non abbattere. Prodi, insomma, paga ancora una volta la scelta di aver siglato a suo tempo un programma tanto lungo quanto fumoso e impreciso in ogni punto cruciale. La stessa vaghezza, ad esempio, che si è riscontrata sulla regolarizzazione delle coppie di fatto omosessuali: anche in quel caso la formulazione scelta era volutamente ambigua, anche in quel caso ogni componente della maggioranza era convinta di vederci scritto ciò che voleva, anche in quel caso la coalizione di governo si è spaccata. Solo che i Dico si possono chiudere in un cassetto e si può fingere di essersene dimenticati, ma per la riforma delle pensioni la cosa è un po’ più complessa.

Preso atto del “niet” di Rifondazione, a Prodi, a questo punto, non restava che provare a convincere Cgil, Cisl e Uil: un accordo con le sigle confederali avrebbe tagliato fuori Rifondazione comunista e ridato un po’ di ossigeno al presidente del Consiglio. Ma l’immagine di una maggioranza sfasciata e di un governo diviso (per Rifondazione aveva trattato il ministro della Solidarietà sociale Paolo Ferrero) restava a certificare il fallimento del premier. Oggi, al consiglio dei ministri, si vedrà se i sedicenti riformisti sceglieranno di ingoiare il rospo o avranno il coraggio politico di puntare i piedi.

Almeno fosse una riforma rigorosa, quella presentata da Prodi ai suoi alleati di sinistra. Tutt’altro. Prevede che, a partire dal primo gennaio del 2008, si possa andare in pensione a 58 anni invece che a 60, come era previsto dalla legge Maroni. Dal 2010 invece potranno andare in pensione i lavoratori che raggiungeranno “quota 96”, intesa come somma dell’età anagrafica con gli anni di contributi pagati. Una revisione della lista dei lavoratori esonerati dall’aumento dell’età pensionabile perché alle prese con mestieri “usuranti” - Ferrero e il leader della Uil Luigi Angeletti intendono inserirci persino le maestre d’asilo - renderà la nuova previdenza ancora più lassista. Nonostante tutto questo, la “quota 96”, necessaria per non affossare i conti della previdenza nei prossimi anni, è stata respinta sino a tarda sera dall’estrema sinistra.

Non si tratta nemmeno di una riforma a costo zero per le casse dello Stato. Il governo sostiene di voler rimediare parte delle entrate dalla “armonizzazione” degli attuali enti di previdenza e da qualche taglio alle spese della pubblica amministrazione, ma si tratta di propositi scritti sull’acqua, escamotage contabili di corto respiro. L’impatto sui conti pubblici sarà notevole. Il Documento di programmazione economico-finanziaria preparato dal governo già calcola in 21,3 miliardi, solo per il 2008, la somma da reperire per finanziare le spese già previste per il prossimo anno. A questa cifra vanno aggiunti adesso i soldi per superare lo scalone.

Si tratta di esborsi che non dovranno gravare sul deficit pubblico del prossimo anno, cioè dovranno essere interamente coperti dalla Finanziaria che il governo scriverà dopo l’estate e il Parlamento sarà chiamato ad approvare entro dicembre. Coperti come? O con tagli delle spese o con l’ennesimo aumento delle imposte. Ma si è già visto che il governo Prodi non è in grado di ridurre le uscite, perché glielo impediscono le continue richieste dell’ala sinistra della maggioranza, secondo la quale bisognerebbe dare addirittura un “reddito di cittadinanza” a chiunque, per il semplice fatto di esistere: un vero e proprio premio a chi non lavora. Vista l’arietta pre-elettorale che tira, poi, la propensione ad aumentare la spesa clientelare sarà, come sempre a ridosso delle elezioni, ancora più forte del solito. E così al governo - ammesso che per allora sia ancora in piedi - non resterà che aumentare le tasse e dare l’ennesima torchiata al ceto medio. Ricordare che poche settimane fa a via XX settembre si favoleggiava di una manovra per il 2008 da “quota zero”, cioè senza saldi da finanziare, e che il ministro dell’Economia aveva annunciato una riduzione delle aliquote fiscali proprio a partire dal prossimo anno, può aiutare a capire meglio in quale nebbia politica e mentale stiano annaspando Prodi e i suoi ministri.

Intanto, a bordo campo, si scalda Walter Veltroni. Qualche settimana fa Silvio Berlusconi disse che Prodi sarebbe già caduto se solo a sinistra si fosse trovato qualcuno disposto a farlo fuori politicamente. L’impressione è che il killer adesso ci sia: sta in Campidoglio. L’unico che può ricomporre i cocci della maggioranza è l’attuale sindaco di Roma. Per farlo dovrà sbarazzarsi al più presto di Prodi. A sinistra piangeranno in pochi, e i partiti comunisti della coalizione, sino a non molto tempo fa gli alleati più fidati del premier, non verseranno manco una lacrima.

© Libero. Pubblicato il 20 luglio 2007.

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