Ma quale "eversivo"
di Fausto Carioti
Che Silvio Berlusconi abbia un’idea di democrazia diversa da quella prevista dalla Costituzione italiana è fuori di dubbio. Lo si è visto anche ieri. Lui stesso, ormai da tempo, non fa nulla per nascondere il proprio grande progetto: svecchiare le istituzioni per rendere più rapida l’azione del governo, rafforzando il legame diretto tra il premier e gli elettori. Ma si tratta pur sempre di un’idea di democrazia legittima, simile a quella di democrazie ben più solide e datate della nostra. Cosa che la sinistra finge di non sapere, accusando Berlusconi di voler creare «una democrazia plebiscitaria» (Walter Veltroni), di «eversione» (Luigi Zanda), di «fascismo» (Antonio Di Pietro, ovviamente).
«Vista da dentro, l’attività del governo e del Parlamento nel fare leggi è un inferno. Abbiamo un’architettura istituzionale che rende difficilissimo trasformare i progetti in leggi compiute, concrete e operanti», ha attaccato ieri il presidente del Consiglio, scatenando il diluvio di reazioni da parte dell’opposizione. Eppure che la Costituzione debba essere cambiata nella direzione indicata da lui, lo hanno detto più volte gli stessi leader del centrosinistra. Lo ripete spesso Giorgio Napolitano, quando lancia i suoi appelli a riscrivere specifiche norme della Carta, «in particolare per quel che riguarda la forma di governo». E a che cosa doveva servire la commissione bicamerale presieduta da Massimo D’Alema tra il 1997 e il ’98, se non a rivoltare la seconda parte della Costituzione, cambiando - come recita la legge che la istituì - «forma di Stato, forma di governo e bicameralismo»? A missione fallita (anche per colpa di Berlusconi), D’Alema accusò «il coalizzarsi di forze conservatrici, compresa quella parte della borghesia che in realtà vuole la politica debole e ricattabile». Discorso non molto diverso da quello fatto in questi giorni dal premier contro le «lobby» della conservazione.
Quando Berlusconi, come ha fatto ieri, si lamenta perché la Costituzione è «datata» e l’ordinamento italiano prevede «permessi, autorizzazioni, concessioni e licenze tipici di uno Stato totalitario», sempre alla stessa cosa si riferisce: lo scopo della Carta del ’48 e dell’ordinamento che ne è derivato, infatti, non era rendere spediti i processi decisionali, ma garantire cittadini, famiglie e imprese da decisionismi troppo azzardati. Imbrigliare, dunque. Obiettivo comprensibilissimo per un Paese appena uscito dal Ventennio mussoliniano, ma senza senso adesso che l’Italia deve misurare le proprie politiche con quelle di Paesi come Stati Uniti, Francia, Regno Unito. Dove, in un modo o nell’altro, i governi e chi li guida possono azionare leve che a palazzo Chigi non esistono.
Il presidente degli Stati Uniti è eletto direttamente dal popolo ed è il capo del governo, nomina e revoca i ministri e non dipende dalla fiducia del parlamento. Nel modello francese il presidente della repubblica, eletto dai cittadini e non dipendente dalle Camere, sceglie il primo ministro e gli altri membri dell’esecutivo. Può sciogliere l’Assemblea Nazionale. E l’elezione quasi contemporanea del presidente e del parlamento rende molto improbabile che il primo non sia, al tempo stesso, anche il leader della coalizione che vince le politiche. Nel modello inglese, il premier è il capo del partito di maggioranza, sceglie e revoca i ministri e può ottenere lo scioglimento anticipato delle Camere. È a questi Paesi e alle altre grandi democrazie che guarda Berlusconi. Ritenere «plebiscitario», «eversivo» o «fascista» il suo progetto, per il semplice fatto che si basa sull’elezione diretta di chi guida il governo e sull’aumento dei poteri dell’esecutivo, è come dire che gli Stati Uniti, la Francia o l’Inghilterra non sono democrazie: il che fa un po’ ridere, specie sulla bocca di uno come Di Pietro.
Berlusconi non è nemmeno il primo a porre il problema. Il tentativo di cambiare la legge elettorale portato avanti nel 1953 dal leader democristiano Alcide De Gasperi aveva come scopo ultimo proprio quello di rafforzare e rendere più stabile il governo. Ed era una legge che, decenni dopo, ha ricevuto apprezzamenti tardivi anche a sinistra. Ad esempio da parte di Giuseppe Vacca, presidente dell’Istituto Gramsci, il quale ha ammesso che una simile riforma avrebbe accelerato la transizione italiana verso una democrazia più moderna. Se fosse stato in vigore un simile sistema elettorale, ha scritto Vacca, «il compimento della evoluzione riformistica» del Pci e il problema del suo distacco dall’Urss si sarebbero imposti molto prima».
Berlusconi, insomma, ha ottimi motivi per credere che, tra qualche decennio, la Storia e la sinistra, almeno su questo, gli daranno ragione. Il suo problema immediato, però, è cambiare la Costituzione in questa legislatura. Se il presidente del Consiglio ieri ha ammesso di aver sbagliato tutto con il piano casa («Avevo pensato che fosse una genialata vera, ma non mi risulta che ci sia un solo cantiere aperto») vuol dire che qualche dubbio sulle capacità realizzative di Berlusconi è venuto anche a lui.
© Libero. Pubblicato il 10 giugno 2010.
Che Silvio Berlusconi abbia un’idea di democrazia diversa da quella prevista dalla Costituzione italiana è fuori di dubbio. Lo si è visto anche ieri. Lui stesso, ormai da tempo, non fa nulla per nascondere il proprio grande progetto: svecchiare le istituzioni per rendere più rapida l’azione del governo, rafforzando il legame diretto tra il premier e gli elettori. Ma si tratta pur sempre di un’idea di democrazia legittima, simile a quella di democrazie ben più solide e datate della nostra. Cosa che la sinistra finge di non sapere, accusando Berlusconi di voler creare «una democrazia plebiscitaria» (Walter Veltroni), di «eversione» (Luigi Zanda), di «fascismo» (Antonio Di Pietro, ovviamente).
«Vista da dentro, l’attività del governo e del Parlamento nel fare leggi è un inferno. Abbiamo un’architettura istituzionale che rende difficilissimo trasformare i progetti in leggi compiute, concrete e operanti», ha attaccato ieri il presidente del Consiglio, scatenando il diluvio di reazioni da parte dell’opposizione. Eppure che la Costituzione debba essere cambiata nella direzione indicata da lui, lo hanno detto più volte gli stessi leader del centrosinistra. Lo ripete spesso Giorgio Napolitano, quando lancia i suoi appelli a riscrivere specifiche norme della Carta, «in particolare per quel che riguarda la forma di governo». E a che cosa doveva servire la commissione bicamerale presieduta da Massimo D’Alema tra il 1997 e il ’98, se non a rivoltare la seconda parte della Costituzione, cambiando - come recita la legge che la istituì - «forma di Stato, forma di governo e bicameralismo»? A missione fallita (anche per colpa di Berlusconi), D’Alema accusò «il coalizzarsi di forze conservatrici, compresa quella parte della borghesia che in realtà vuole la politica debole e ricattabile». Discorso non molto diverso da quello fatto in questi giorni dal premier contro le «lobby» della conservazione.
Quando Berlusconi, come ha fatto ieri, si lamenta perché la Costituzione è «datata» e l’ordinamento italiano prevede «permessi, autorizzazioni, concessioni e licenze tipici di uno Stato totalitario», sempre alla stessa cosa si riferisce: lo scopo della Carta del ’48 e dell’ordinamento che ne è derivato, infatti, non era rendere spediti i processi decisionali, ma garantire cittadini, famiglie e imprese da decisionismi troppo azzardati. Imbrigliare, dunque. Obiettivo comprensibilissimo per un Paese appena uscito dal Ventennio mussoliniano, ma senza senso adesso che l’Italia deve misurare le proprie politiche con quelle di Paesi come Stati Uniti, Francia, Regno Unito. Dove, in un modo o nell’altro, i governi e chi li guida possono azionare leve che a palazzo Chigi non esistono.
Il presidente degli Stati Uniti è eletto direttamente dal popolo ed è il capo del governo, nomina e revoca i ministri e non dipende dalla fiducia del parlamento. Nel modello francese il presidente della repubblica, eletto dai cittadini e non dipendente dalle Camere, sceglie il primo ministro e gli altri membri dell’esecutivo. Può sciogliere l’Assemblea Nazionale. E l’elezione quasi contemporanea del presidente e del parlamento rende molto improbabile che il primo non sia, al tempo stesso, anche il leader della coalizione che vince le politiche. Nel modello inglese, il premier è il capo del partito di maggioranza, sceglie e revoca i ministri e può ottenere lo scioglimento anticipato delle Camere. È a questi Paesi e alle altre grandi democrazie che guarda Berlusconi. Ritenere «plebiscitario», «eversivo» o «fascista» il suo progetto, per il semplice fatto che si basa sull’elezione diretta di chi guida il governo e sull’aumento dei poteri dell’esecutivo, è come dire che gli Stati Uniti, la Francia o l’Inghilterra non sono democrazie: il che fa un po’ ridere, specie sulla bocca di uno come Di Pietro.
Berlusconi non è nemmeno il primo a porre il problema. Il tentativo di cambiare la legge elettorale portato avanti nel 1953 dal leader democristiano Alcide De Gasperi aveva come scopo ultimo proprio quello di rafforzare e rendere più stabile il governo. Ed era una legge che, decenni dopo, ha ricevuto apprezzamenti tardivi anche a sinistra. Ad esempio da parte di Giuseppe Vacca, presidente dell’Istituto Gramsci, il quale ha ammesso che una simile riforma avrebbe accelerato la transizione italiana verso una democrazia più moderna. Se fosse stato in vigore un simile sistema elettorale, ha scritto Vacca, «il compimento della evoluzione riformistica» del Pci e il problema del suo distacco dall’Urss si sarebbero imposti molto prima».
Berlusconi, insomma, ha ottimi motivi per credere che, tra qualche decennio, la Storia e la sinistra, almeno su questo, gli daranno ragione. Il suo problema immediato, però, è cambiare la Costituzione in questa legislatura. Se il presidente del Consiglio ieri ha ammesso di aver sbagliato tutto con il piano casa («Avevo pensato che fosse una genialata vera, ma non mi risulta che ci sia un solo cantiere aperto») vuol dire che qualche dubbio sulle capacità realizzative di Berlusconi è venuto anche a lui.
© Libero. Pubblicato il 10 giugno 2010.