Lo strappo istituzionale

di Fausto Carioti

Ci vuole un fisico bestiale e chissà se Silvio Berlusconi ce l’ha ancora. Il premier ha archiviato da poche ore la pratica della manovra con la sospiratissima firma di Giorgio Napolitano. Ha appena incassato una promozione dal governatore Mario Draghi, sia per quanto fatto in politica economica negli ultimi due anni, sia per la manovra appena varata, perché «nelle nuove condizioni di mercato era inevitabile agire». Insomma, tutto pare promettere bene. Anche gli scontri istituzionali sembrano alle spalle. Ma è una sensazione che dura poco. A cancellarla ci pensa Gianfranco Fini. A metà pomeriggio, il presidente della Camera interviene per esprimere «dubbi sul testo al Senato del disegno di legge sulle intercettazioni»: la norma transitoria, inserita per rendere applicabile il provvedimento ai processi in corso, secondo Fini «è in contrasto con il principio di ragionevolezza». Concetto col quale si può concordare o meno. Però non ci sono dubbi che, nella commedia di questa legislatura, Fini si diverta sempre più a coprire due ruoli diversissimi tra loro: da un lato alta figura istituzionale, dall’altro capo di una corrente minoritaria del PdL.

Non è la prima volta che Fini li mette in corto circuito. Nell’agosto scorso assicurò che avrebbe fatto «il possibile per correggere alla Camera» il disegno di legge sul testamento biologico, perché così com’era non gli andava bene. A che titolo parlava, come presidente di Montecitorio, carica super partes, o come capo dell’area laicista del PdL? Come ambedue le cose, è evidente. Da lì, l’equivoco è proseguito.

Ieri, però, il presidente della Camera si è spinto oltre: ha messo il becco nelle faccende dell’altro ramo del Parlamento, dove si trova il disegno di legge sulle intercettazioni. È uno strappo grave nei confronti della prassi costituzionale, secondo cui le due Camere hanno pari dignità e sono autonome l’una dall’altra. Schifani, racconta chi era con lui quando ha letto l’attacco di Fini, non è riuscito a trattenere la rabbia. «Intanto perché il presidente della Camera ha dato giudizi sui lavori del Senato, compiendo un’interferenza pesante», raccontano da palazzo Madama. «E poi, a rendere il suo gesto ancora più grave, c’è il fatto che il Senato non si era ancora pronunciato sul disegno di legge». Le dichiarazioni di Fini, infatti, sono uscite a lavori in corso, e per i senatori della maggioranza sapere che quello che stavano facendo sarebbe stato smontato dal presidente della Camera è stato un oltraggio istituzionale.

A complicare ancora di più i rapporti tra i due presidenti, il fatto che la sortita sia arrivata proprio nel momento in cui Schifani stava tessendo un’opera di mediazione parlamentare con l’opposizione. Un sabotaggio vero e proprio, insomma, anche se i berlusconiani preferiscono definirla «una bomba a orologeria, un’uscita a gamba tesa fatta nel modo peggiore e nel momento peggiore». Nonché «un tradimento», giacché nei giorni scorsi, quando il plenipotenziario del premier Niccolò Ghedini era andato a trattare sulla legge con Fini, costui non gli aveva fatto presagire nulla delle sue intenzioni. Difficile, insomma, dare torto al forzista Gaetano Quagliariello quando chiede a Fini di «superare il conflitto d’interessi che deriva dal suo doppio ruolo». Che non è una richiesta di dimissioni, come piace leggerla al Pd per gettare benzina sul fuoco della maggioranza, ma l’invito a smettere di coprire due ruoli incompatibili. Invito che però Fini, come scriverà oggi il Secolo (e non è che ci fossero dubbi), non ha alcuna intenzione di accettare.

A questo punto, per la rottura del PdL, non è questione di «se», ma di «quando». Berlusconi in questo momento già se la deve vedere con la Lega che chiede l’attuazione immediata del federalismo (auguri), con la speculazione internazionale sulla tenuta dei conti pubblici, con Tremonti che non vuole tagliare le tasse. Tutti temi più importanti, agli occhi degli elettori, della legge sulle intercettazioni, e Fini lo sa benissimo. Per questo, nonostante tutto, alla fine è probabile che uno straccio di accordo tra i due salti fuori. «Ma è chiaro», spiega un forzista vicino al premier, «che ormai con Fini abbiamo passato il punto di non ritorno. Ora è evidente a tutti perché riteniamo incompatibili i suoi due ruoli. Quello che ha appena fatto rappresenta un nuovo passo, decisivo, verso il divorzio».

© Libero. Pubblicato il 1 giugno 2010.

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