Buon compleanno, petrolio

di Fausto Carioti

Buon compleanno al progresso tecnologico. Buon compleanno alle meravigliose libertà consumistiche di noialtri moderni: viaggiare, volare, azionare un pistone, starcene al caldo quando fuori si trema. In una parola: buon compleanno, petrolio. L’industria del greggio ha appena compiuto 150 anni. Il 27 agosto del 1859 a Titusville, in Pennsylvania, il sedicente “colonnello” Edwin Laurentine Drake fece trivellare il suo terreno sino alla profondità di venti metri. La mattina dopo scoprì che si era formata una pozza di liquido scuro e oleoso: Drake aveva trovato quello che stava cercando. Sino ad allora, il poco petrolio in commercio non veniva estratto dal sottosuolo, ma “raccolto” con coperte di lana laddove affiorava liberamente. Da quel giorno, il mondo non sarebbe più stato lo stesso. La “leggenda nera” che accompagna dagli inizi la storia dell’industria petrolifera ne ha fatto l’epicentro di tutti i mali della modernità: la guerra, l’avidità degli “spiriti animali” del capitalismo, la corruzione, l’inquinamento. Una lunga lista cui, da qualche tempo, si è aggiunto l’ultimo dei peccati mortali: il surriscaldamento del pianeta. A festeggiare la ricorrenza di questi giorni, e a rendere giustizia a quel fluido così vilipeso cui dobbiamo il nostro benessere, arriva adesso un report liberamente scaricabile dal sito dell’Istituto Bruno Leoni, scritto da Renato Calvanese e intitolato "150 anni fa, il futuro". Venti pagine belle da leggere in cui si ripercorrono le fasi iniziali dell’industria del petrolio, sino alla creazione del più grande monopolio privato di tutti i tempi, la Standard Oil di John Davison Rockefeller.

Come si legge nella celebrazione che gli hanno dedicato i benemeriti dell’Ibl, «le conseguenze positive del petrolio si vedono nell’allungamento della durata media della vita, nell’esplosione di traffici e scambi, nella liberazione dell’uomo dalla schiavitù del suo luogo di nascita. Il petrolio è la grande benedizione del mondo moderno ed è giusto riconoscerglielo nel giorno in cui, a dispetto di tutte le previsioni più fosche, i suoi 150 anni dimostra di portarseli davvero bene». Tutti gli devono qualcosa, persino l’ambiente marino, che passa per la grande vittima dell’economia del petrolio.

Senza questo, infatti, le balene sarebbero scheletri da esporre nei musei, accanto alle ossa dei mammut. Prima dell’entrata in commercio dell’“olio di roccia”, ricorda Calvanese, «le macellerie a bordo dei vascelli squartavano cetacei a ciclo continuo, facevano brandelli dei mammiferi, tagliuzzavano il grasso in piccole strisce e lo fondevano in recipienti di mattoni per farne combustibile da rivendere a caro prezzo». Se oggi Greenpeace può ancora difendere le balene il merito è solo dello speculatore Drake e dei tanti che lo seguirono: il loro petrolio, venduto a meno di un dollaro a gallone (contro i tre dell’olio di balena), in pochi anni distrusse l’industria della pesca dei cetacei. E senza petrolio non avremmo conosciuto l’energia del futurismo, e Filippo Tommaso Marinetti, mezzo secolo dopo quella trivellazione nel campo di Drake, non avrebbe mai scritto il suo Manifesto: «Un’automobile ruggente, che sembra correre sulla mitraglia, è più bella della Vittoria di Samotracia».

Soprattutto, la storia raccontata nel documento dell’Ibl serve a ricordarci che il benessere di tutti non è il frutto dell’impegno di benefattori illuminati, ma il risultato («inintenzionale», per dirla con Karl Popper) della smania d’arricchimento di individui spesso invidiati dai loro simili. John D. Rockefeller, come i suoi fratelli, era stato educato dal padre secondo le regole della frontiera: «Traffico con loro e li truffo e li inganno ogni volta che posso. Voglio renderli svegli». Con John ci riuscì benissimo. Nel 1862, ad appena 23 anni, investì i suoi guadagni in una ditta di Cleveland, nell’Ohio, che raffinava petrolio per produrre kerosene. Sei anni dopo la sua impresa, la Standard Oil, chiuse un accordo con una compagnia ferroviaria: lui riempiva i vagoni del suo prodotto, loro gli facevano prezzi così bassi da permettergli di tagliare fuori tutta la concorrenza. Così il «Mefistofele di Cleveland», come venne subito ribattezzato, potè comprare uno per uno i suoi competitori. Nel 1877 Rockefeller mise le mani anche sui mezzi per trasportare il combustibile: cinquemila vagoni cisterna, una flotta di piroscafi per navigare sui Grandi Laghi e 800 chilometri di oleodotti.

Uno così non poteva che attirare odio. E infatti la Standard Oil divenne il bersaglio preferito di giornalisti e autori di pamphlet (talvolta veri, talaltra inventati di sana pianta) e il suo fondatore fu per decenni il capitalista-vampiro per antonomasia, lo spauracchio con cui spaventare i bimbi che si comportavano male. Nel 1911 la Corte suprema degli Stati Uniti, con giudizio inappellabile, dichiarò sciolto il trust che faceva capo a «Mefistofele». Il gruppo venne smembrato e le quote distribuite tra i soci. Per Rockefeller non cambiò molto: diventò ancora più ricco e continuò a fare i suoi traffici.

Morì nel 1937, all’età di 98 anni. L’opinione pubblica aveva scoperto da poco che quell’uomo tanto odiato, per tutta la sua lunga vita, aveva devoluto un decimo dei guadagni in opere di bene, finanziando con milioni di dollari l’Università di Chicago, sostenendo fondi per l’educazione dei neri americani e programmi di ricerche mediche negli Stati Uniti e in Europa. Anche se il suo contributo più grande alla causa dell’umanità resta proprio la commercializzazione su scala mondiale di quel maledetto petrolio che ne aveva fatto l’uomo più ricco e detestato del pianeta. L’avidità, motore del progresso. Ennesima conferma di quello che voleva dirci Bernard De Mandeville con la sua celebre favola delle api: «I vizi dei privati contribuivano alla felicità pubblica. Da quando la virtù, istruita dalle malizie politiche, aveva appreso i mille felici raggiri dell’astuzia, e da quando si era legata di amicizia col vizio, anche i più scellerati facevano qualcosa per il bene comune».

© Libero. Pubblicato il 28 agosto 2009.

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