Libertà e responsabilità per Internet
di Fausto Carioti
La gente che incontri su Internet è la stessa che incroci per strada: c’è la persona educata che rispetta la precedenza, c’è quello che sbaglia ma ti chiede subito scusa e c’è la teppa che prima ti investe e poi ti ricopre di insulti. La differenza è nelle regole: per strada bene o male le puoi applicare, sul Web no. Perché le automobili hanno la targa, e a ogni targa corrisponde una persona da multare. Sul Web, invece, la rintracciabilità esiste in teoria, ma non in pratica. La condizione normale è l’anonimato, e risalire dall’anonimo che sparge odio e calunnie a un nome e un indirizzo è impresa difficile e costosa. Così Internet assomiglia sempre più alle pareti dei cessi pubblici: chiunque passi si sente in diritto di lasciarci il peggio di sé. Tanto, nessuno saprà mai chi è stato. Con la differenza che online quelli che ti leggono sono mille volte di più: vuoi mettere la soddisfazione.
Insomma, sul Web c’è la libertà, e ce n’è tanta. È la responsabilità che manca. Internet è uno strumento potentissimo perché dà a chiunque metta online un pensiero scritto o un filmato la possibilità di essere visto da centinaia, migliaia di persone, in brevissimo tempo. Ma anche i fumetti americani insegnano che «da grandi poteri derivano grandi responsabilità», e da questo punto di vista proprio non ci siamo. In compenso, abbonda la retorica dell’impunità: guai a toccare la libertà dell’ultimo frustrato di fare i complimenti al compagno Massimo Tartaglia «a nome di tutti gli italiani che non ne possono più di questo puttaniere colluso con la mafia» o di augurare a Silvio Berlusconi «che muoia ‘sto nano del cazzo» (come si legge in due commenti apparsi ieri su Youtube). O di iscriversi al gruppo di Facebook «Accoppiamo Berlusconi» (ma ce n’è per tutti, anche se il Cavaliere è in cima alle preferenze).
Solo ipotizzare due o tre regolette per questo Far West, dove oggi chiunque è libero di vomitare su chi gli sta sulle scatole, equivale a prendersi la patente di infame censore. Se ne è accorto il ministro Roberto Maroni. Il governo ha infatti la pretesa - nientemeno - di estendere sul serio allo sgangherato universo del Web le regole già in uso per il normale consorzio umano. Come risultato, il commento più gentile che si è beccato Maroni è quello di ottuso censore. Perché «la Rete è libertà», «altrimenti diventiamo come la Cina» e via così, come recitano i tanti luoghi comuni che avvolgono il Web.
E invece, più che di libertà, è di etica della responsabilità che occorre parlare. Chi vuole avere tra le mani uno strumento tanto potente da far fare al suo pensiero il giro del mondo in un istante deve essere disposto ad accettare che c’è un prezzo da pagare per chi incita a uccidere il prossimo o sparge insulti e calunnie. Se vado in piazza e dico a dieci persone che il mio vicino di casa è un pedofilo, presto o tardi dovrò risponderne. Se lo faccio a mezzo stampa o davanti a una telecamera, la mia responsabilità sarà proporzionale alla platea. L’unico luogo in cui questo non avviene, oggi, è la fantastica nuova frontiera della rete.
Ci vuole un responsabile. In termini più prosaici, ci vuole qualcuno da denunciare. I vituperatissimi mezzi d’informazione tradizionali hanno mille difetti, ma c’è sempre un direttore responsabile, qualcuno che paga in prima persona per ciò che finisce in pagina o viene messo in onda. E che quindi si preoccupa che questi contenuti siano a norma di legge. Su Internet, invece, in pochi secondi chiunque può mettere online tutto ciò che vuole. Per risalire alla sua identità occorrerà passare per server e società domiciliati in giro per il mondo, che non hanno alcun interesse a fornire questi dati a chi li chiede. A meno che non si voglia avviare una procedura legale internazionale costosa, lunga e dall’esito incerto. Al termine della quale, magari, si scopre che nel frattempo quei dati sono stati cancellati dai server. Chiamare i grandi provider internazionali a rispondere per ciò che viene trasmesso sulle loro piattaforme (siti, blog, social network…), qualora non rendano possibile rintracciare il responsabile del reato, è un primo passo.
Dire che porsi simili problemi è inutile, perché Internet è la cosa più globalizzata che esista, è una risposta ipocrita e falsa. Ipocrita perché, se uno Stato abdica al governo dei nuovi territori dell’insediamento umano, tanto vale decretarne il fallimento. E falsa perché l’impresa è tecnicamente difficile, ma non impossibile. Passa anche attraverso accordi internazionali con altri Paesi e con società estere, nei confronti dei quali uno Stato sovrano ha il dovere e il potere di trattare da posizioni di forza, almeno per ciò che compiono i suoi cittadini sul suo territorio. E chi, come Dario Franceschini, si ribella a questa idea perché «accusare la Rete è come accusare le Poste del contenuto delle lettere», mostra di non averci capito nulla. Il contenuto delle lettere non è visibile a chiunque, ma quello del Web sì, ed è proprio qui il punto. La Rete, semmai, può essere paragonata ai giornali e alle televisioni. Dove chi sbaglia paga.
Dunque, se le nuove norme serviranno a rendere responsabili gli utenti e chi pubblica i loro contenuti, saranno le benvenute. La censura e la fine della libertà su Internet non c’entrano proprio niente. C’entra solo il coraggio di mettere un nome e una faccia su quello che si fa. Chi questo coraggio ce l’ha, ha tutto da guadagnare dall’applicazione del principio di responsabilità. Gli altri, potranno sempre continuare a esprimere il loro pensiero sulle pareti dei bagni pubblici.
© Libero. Pubblicato il 16 dicembre 2009.
La gente che incontri su Internet è la stessa che incroci per strada: c’è la persona educata che rispetta la precedenza, c’è quello che sbaglia ma ti chiede subito scusa e c’è la teppa che prima ti investe e poi ti ricopre di insulti. La differenza è nelle regole: per strada bene o male le puoi applicare, sul Web no. Perché le automobili hanno la targa, e a ogni targa corrisponde una persona da multare. Sul Web, invece, la rintracciabilità esiste in teoria, ma non in pratica. La condizione normale è l’anonimato, e risalire dall’anonimo che sparge odio e calunnie a un nome e un indirizzo è impresa difficile e costosa. Così Internet assomiglia sempre più alle pareti dei cessi pubblici: chiunque passi si sente in diritto di lasciarci il peggio di sé. Tanto, nessuno saprà mai chi è stato. Con la differenza che online quelli che ti leggono sono mille volte di più: vuoi mettere la soddisfazione.
Insomma, sul Web c’è la libertà, e ce n’è tanta. È la responsabilità che manca. Internet è uno strumento potentissimo perché dà a chiunque metta online un pensiero scritto o un filmato la possibilità di essere visto da centinaia, migliaia di persone, in brevissimo tempo. Ma anche i fumetti americani insegnano che «da grandi poteri derivano grandi responsabilità», e da questo punto di vista proprio non ci siamo. In compenso, abbonda la retorica dell’impunità: guai a toccare la libertà dell’ultimo frustrato di fare i complimenti al compagno Massimo Tartaglia «a nome di tutti gli italiani che non ne possono più di questo puttaniere colluso con la mafia» o di augurare a Silvio Berlusconi «che muoia ‘sto nano del cazzo» (come si legge in due commenti apparsi ieri su Youtube). O di iscriversi al gruppo di Facebook «Accoppiamo Berlusconi» (ma ce n’è per tutti, anche se il Cavaliere è in cima alle preferenze).
Solo ipotizzare due o tre regolette per questo Far West, dove oggi chiunque è libero di vomitare su chi gli sta sulle scatole, equivale a prendersi la patente di infame censore. Se ne è accorto il ministro Roberto Maroni. Il governo ha infatti la pretesa - nientemeno - di estendere sul serio allo sgangherato universo del Web le regole già in uso per il normale consorzio umano. Come risultato, il commento più gentile che si è beccato Maroni è quello di ottuso censore. Perché «la Rete è libertà», «altrimenti diventiamo come la Cina» e via così, come recitano i tanti luoghi comuni che avvolgono il Web.
E invece, più che di libertà, è di etica della responsabilità che occorre parlare. Chi vuole avere tra le mani uno strumento tanto potente da far fare al suo pensiero il giro del mondo in un istante deve essere disposto ad accettare che c’è un prezzo da pagare per chi incita a uccidere il prossimo o sparge insulti e calunnie. Se vado in piazza e dico a dieci persone che il mio vicino di casa è un pedofilo, presto o tardi dovrò risponderne. Se lo faccio a mezzo stampa o davanti a una telecamera, la mia responsabilità sarà proporzionale alla platea. L’unico luogo in cui questo non avviene, oggi, è la fantastica nuova frontiera della rete.
Ci vuole un responsabile. In termini più prosaici, ci vuole qualcuno da denunciare. I vituperatissimi mezzi d’informazione tradizionali hanno mille difetti, ma c’è sempre un direttore responsabile, qualcuno che paga in prima persona per ciò che finisce in pagina o viene messo in onda. E che quindi si preoccupa che questi contenuti siano a norma di legge. Su Internet, invece, in pochi secondi chiunque può mettere online tutto ciò che vuole. Per risalire alla sua identità occorrerà passare per server e società domiciliati in giro per il mondo, che non hanno alcun interesse a fornire questi dati a chi li chiede. A meno che non si voglia avviare una procedura legale internazionale costosa, lunga e dall’esito incerto. Al termine della quale, magari, si scopre che nel frattempo quei dati sono stati cancellati dai server. Chiamare i grandi provider internazionali a rispondere per ciò che viene trasmesso sulle loro piattaforme (siti, blog, social network…), qualora non rendano possibile rintracciare il responsabile del reato, è un primo passo.
Dire che porsi simili problemi è inutile, perché Internet è la cosa più globalizzata che esista, è una risposta ipocrita e falsa. Ipocrita perché, se uno Stato abdica al governo dei nuovi territori dell’insediamento umano, tanto vale decretarne il fallimento. E falsa perché l’impresa è tecnicamente difficile, ma non impossibile. Passa anche attraverso accordi internazionali con altri Paesi e con società estere, nei confronti dei quali uno Stato sovrano ha il dovere e il potere di trattare da posizioni di forza, almeno per ciò che compiono i suoi cittadini sul suo territorio. E chi, come Dario Franceschini, si ribella a questa idea perché «accusare la Rete è come accusare le Poste del contenuto delle lettere», mostra di non averci capito nulla. Il contenuto delle lettere non è visibile a chiunque, ma quello del Web sì, ed è proprio qui il punto. La Rete, semmai, può essere paragonata ai giornali e alle televisioni. Dove chi sbaglia paga.
Dunque, se le nuove norme serviranno a rendere responsabili gli utenti e chi pubblica i loro contenuti, saranno le benvenute. La censura e la fine della libertà su Internet non c’entrano proprio niente. C’entra solo il coraggio di mettere un nome e una faccia su quello che si fa. Chi questo coraggio ce l’ha, ha tutto da guadagnare dall’applicazione del principio di responsabilità. Gli altri, potranno sempre continuare a esprimere il loro pensiero sulle pareti dei bagni pubblici.
© Libero. Pubblicato il 16 dicembre 2009.