Quando Napolitano applaudiva all'esilio di Solzhenitsyn

di Fausto Carioti

L’appoggio di Giorgio Napolitano ad alcune delle scelte più infami dell’Unione Sovietica non si limitò alla benedizione, nel 1956, dell’intervento militare in Ungheria, che l’attuale presidente della repubblica italiana definì un contributo alla «stabilizzazione internazionale». Napolitano riuscì a spingersi oltre, e lo fece in tempi molto più recenti. Nel 1974, in un lungo articolo apparso sull’Unità, l’allora dirigente di Botteghe Oscure approvò in pubblico la decisione del Cremino di esiliare il grande scrittore russo Aleksandr Solzhenitsyn, “colpevole” di aver denunciato gli orrori del comunismo sovietico. Napolitano definì «aberranti» i giudizi politici del dissidente russo e, illustrando la linea del partito, spiegò perché l’esilio dovesse considerarsi la «soluzione migliore». L’episodio, con tutti i suoi retroscena, è raccontato in un libro denso di rivelazioni, firmato da Carlo Ripa di Meana e dalla giornalista Gabriella Mecucci: “L’ordine di Mosca. Fermate la Biennale del dissenso” (Liberal Edizioni).

Trentatré anni fa. È il 13 febbraio del 1974 quando i vertici del partito comunista sovietico spediscono Solzhenitsyn in esilio in Germania occidentale. Un provvedimento che lo scrittore ha cercato sino all’ultimo di evitare: quattro anni prima, per paura che gli fosse impedito di tornare in patria, si era rifiutato di andare a Stoccolma a ritirare il Nobel per la letteratura. Il 20 febbraio del ’74 appare sull’Unità l’articolo del «compagno Giorgio Napolitano, membro della direzione del Pci e responsabile della Commissione culturale». Titolo: «Ancora sul “caso Solgenitsyn”. L’esperienza sovietica e la nostra prospettiva».

Il compito non è semplice: Napolitano deve giustificare il gesto indecente di Mosca e la repressione voluta da Leonid Breznev, il quale dieci anni prima ha preso il posto di Nikita Kruscev alla guida del Pcus. Chiamato a difendere l’indifendibile, il “compagno Giorgio” inizia riciclando l’accusa escogitata contro Solzhenitsyn dalla propaganda sovietica: «Le cospicue somme da lui accumulate, grazie ai diritti d’autore, nelle banche svizzere». La vicenda dello scrittore russo, ammette Napolitano entrando nell’argomento, è «significativa e preoccupante», ma non «tale da giustificare la scelta di chi le ha dato, nelle trasmissioni del telegiornale, la precedenza su ogni altro avvenimento internazionale e nazionale». Insomma, il fatto che uno degli scrittori più famosi del mondo, simbolo della dissidenza russa e vincitore del premio Nobel, sia stato privato della cittadinanza sovietica ed esiliato, non è questa gran notizia, e chi l’ha ritenuta tale ha rilanciato «le immagini più fosche della propaganda antisovietica».

Quindi il futuro presidente della repubblica snocciola le sue «indiscutibili verità». Prima tra tutte, il fatto che quella tra «mondo comunista» e «mondo libero» sia solo una «contrapposizione di comodo». Non si può denunciare la repressione in Urss, è il ragionamento, quando in Italia ci sono ancora «abusi polizieschi e giudiziari» e sopravvivono «norme giuridiche fasciste che colpiscono, come “vilipendio” delle istituzioni, i reati di opinione». (Per inciso. Poche settimane fa la procura di Roma, impugnando proprio una di quelle «norme giuridiche fasciste», ha accusato Francesco Storace di aver vilipeso Napolitano. E tutto è avvenuto sotto lo sguardo compiaciuto di quest’ultimo. Il quale, par di capire, nel frattempo ha cambiato idea su ciò che è «fascista» e ciò che non lo è).

L’altra «verità» di Napolitano è che Solzhenitsyn ha assunto un atteggiamento di «sfida» nei confronti dello stato sovietico. «Non c’è dubbio», scrive il responsabile del Pci per la cultura, «che questo atteggiamento - al di là delle stesse tesi ideologiche e dei già aberranti giudizi politici - di Solzhenitsyn, avesse suscitato larghissima riprovazione nell’Urss». Perciò, anche se si tratta di una «grave misura restrittiva dei dritti individuali», il fatto che lo scrittore sia stato espulso, e non incriminato, può essere «obiettivamente» considerato la «soluzione migliore». Del resto, ricorda Napolitano, un simile esito «sarebbe stato impensabile nei periodi più duri della storia sovietica». In parole povere, Solzhenitsyn può dirsi fortunato a non essere finito di nuovo in un gulag o davanti a un plotone d’esecuzione. Opere come le sue sono «rappresentazioni unilaterali e tendenziose della realtà dell’Urss, accuse arbitrarie, tentativi di negare l’immensa portata liberatrice della Rivoluzione d’Ottobre».

La pubblica giustificazione dell’esilio di Solzhenitsyn assume un sapore ancora più sgradevole alla luce di quanto era successo nei giorni precedenti. Il 6 febbraio, infatti, la segreteria del Pci aveva adottato all’unanimità e inviato al Pcus una nota scritta proprio dal responsabile della commissione cultura. In essa, come ha ricordato Silvio Pons, direttore della Fondazione Istituto Gramsci, «il Pci riconosceva la fondatezza delle accuse politiche mosse a Solzhenitsyn dal regime, ma rifiutava di giustificare i metodi di persecuzione giudiziaria, che considerava sbagliati per gli appigli che fornivano agli avversari». Una presa di distanza, dunque, anche se pelosa, dalla decisione che stava per prendere il Cremlino. Ma il 18 febbraio il Pcus risponde al Pci: Solzhenitsyn ha «imboccato la via del tradimento» e l’esilio deve essere considerato un trattamento di favore. Quindi “invita” i «partiti fratelli», cioè quelli che finanziava e sui quali comandava, ad adeguarsi. Napolitano si adegua subito e, ispirato dai “consigli” dei compagni sovietici, verga l’articolo che uscirà due giorni dopo sull’Unità e sarà ripubblicato il 24 febbraio da Rinascita.

L’asservimento del Pci e dei suoi uomini è confermato da altre rivelazioni, contenute nel libro di Ripa di Meana e Mecucci. Il 13 gennaio del 1974, dunque lo stesso giorno in cui Solzhenitsyn fu espulso dall’Urss, uno degli uomini di riferimento della sinistra europea, l’inglese Ken Coates, scrisse al segretario del Pci, Enrico Berlinguer: «L’esilio di Solzhenitsyn è contrario alla costituzione sovietica e qualunque siano le opinioni dello scrittore si tratta di un atto moralmente intollerabile. (...) Vi chiediamo di protestare nel modo più forte presso i dirigenti sovietici, informandoli che la mancanza di ripensamento su questa decisione oltraggiosa avrà come conseguenza una mobilitazione dell’opinione socialista dell’Europa occidentale contro l’intera politica che ha prodotto questa misura repressiva». Ma Berlinguer e compagni non erano certo tipi da mettersi di traverso davanti al Pcus. Il segretario del Pci non rispose a Coates. Si limitò ad annotare di suo pugno, sulla lettera del politico inglese, poche parole, indirizzate a chi di dovere: «Napolitano: rispondere? Si potrebbe allegare il tuo ultimo articolo e aggiungere che le opinioni ivi espresse sono state tutte presenti al Pcus». Tradotto: quello che dovevamo dire ai sovietici l’abbiamo detto in quell’articolo. Di più, non intendiamo fare.

Non sono peccati di gioventù. Napolitano aveva 49 anni quando difese la cacciata di Solzhenitsyn. Il quale, a sua volta, nel 1974 aveva 56 anni, otto dei quali trascorsi nei gulag per aver criticato Stalin in alcune sue lettere personali. Uscito dalla detenzione, dovette scontare un periodo di confino in Kazakistan e sconfiggere un tumore, prima di essere temporaneamente “riabilitato” da Kruscev. Né si può sostenere che all’epoca non si conoscesse il vero volto del comunismo sovietico: i primi due libri di Arcipelago Gulag erano stati pubblicati nel 1973 a Parigi, e in Europa tutti sapevano cosa accadeva al di là della cortina di ferro e per quali motivi Solzhenitsyn fosse sul libro nero di Breznev. Ora, dice Ripa di Meana, «Napolitano, spogliandosi del suo ruolo istituzionale, in forma privata, dovrebbe andare in Russia e dire a Solzhenitsyn che allora espresse un giudizio sbagliato sull’esilio. Chieda perdono a chi ne fu vittima».

© Libero. Pubblicato il 20 novembre 2007.

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